martedì 12 aprile 2016

Quintet (Quintet, 1979) di Robert Altman

In un futuro imprecisato la terra si trova in una nuova era glaciale e i pochi sopravvissuti vivono in città sotterranee per difendersi dal freddo. In una di queste città arriva il cacciatore Essex, che scopre l’esistenza del “Quintet”, un gioco da tavolo praticato dai vertici aristocratici della popolazione locale. Il gioco prevede l’eliminazione fisica dei perdenti da parte del vincitore, che ha potere assoluto di vita e di morte su di loro. Questo crudele rituale di sopraffazione sembra essere l’unico motivo di emozione rimasto in una popolazione abbrutita dal gelo e dall’isolamento, e divenuta sterile a causa del meccanismo riproduttivo della clonazione. Essex, incuriosito ed eccitato, decide di partecipare al gioco. Spiazzante film di Robert Altman, astratto e ipnotico, sotto forma di distopia fantastica che riflette sul senso estremo della vita, inscenando uno spettrale ultimo atto di un’umanità degradata ai confini del mondo. E’ un film freddo, glaciale come le sue ambientazioni, profondamente intellettuale nella sua assenza asettica di emozioni, un meccanismo spietato e geometrico come il gioco che gli dà il titolo. Alla sua uscita non fu compreso dai critici, che lo detestarono, bollandolo come un incomprensibile pistolotto fantascientifico con vaghe ambizioni di apologo morale. In realtà è un’opera complessa, sperimentale e stratificata, una riflessione originale sul “mors tua vita mea”, costruita attraverso un affascinante schematismo rituale (il gioco, il pentagono, i sermoni, gli assiomi matematici, la ricorrenza del numero 5). L’autore parlò apertamente di “fiaba rinascimentale”, alludendo alle analogie con i Borgia, e richiamò nel cast il nostro Vittorio Gassman per affidargli un personaggio teatrale che parla per aforismi aulici. Completano il ricco cast Paul Newman, Fernando Rey, Bibi Andersson e Brigitte Fossey. E’ un film appartato e silente, interamente girato in uno dei padiglioni abbandonati dopo i giochi olimpici di Montreal ’76, che si pone esattamente all’antitesi rispetto al precedente film: l’affollato, colorito e chiassoso, Un matrimonio. Il labirinto allegorico sotteso alla narrazione è, a volte, un po’ manierato nel suo surreale pessimismo apocalittico, ma la fantasia visionaria dell’opera è fervida e la sua mistica occulta possiede un indubbio fascino simbolico, che la rende difficile da dimenticare. Altman, che nella vita era un giocatore accanito, ci regala un’inquietante e originale visione del futuro, in cui il gioco è diventato l’elemento centrale per una élite di disperati visionari. Per essi il gioco è un surrogato della vita e anche un’evocazione della morte (una metafora altisonante che suonerà sicuramente familiare ai giocatori d’azzardo). Se ci si abbandona senza inibizioni al suo flusso diabolico, questo sottovalutato film del maestro americano può riservare parecchie piacevoli sorprese. Da riscoprire.

Voto:
voto: 4/5

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