lunedì 11 aprile 2016

Porcile (Porcile, 1969) di Pier Paolo Pasolini

Due storie parallele che si alternano, una arcaica e l’altra moderna. Nella prima un selvaggio vive in una landa desolata alle pendici dell’Etna e impara a cibarsi di carne umana, diventando un efferato cannibale. Verrà catturato dagli abitanti di un villaggio che lo condannano a una morte orribile: essere sbranato vivo da cani randagi. Nella seconda lo strambo erede di un impero industriale preferisce la compagnia dei maiali, con cui intrattiene perversi rapporti sessuali, a quella degli esseri umani. Incapace di reagire al giogo del dispotico padre, che vorrebbe farlo sposare con la rampolla di una ricca famiglia, l’uomo si concede definitivamente ai porci, facendosi divorare da essi. Atroce fiaba allegorica di Pasolini divisa in due atti complementari, differenti nello stile e nel tono, che però si rispecchiano l’uno nell’altro per la tematica. Il primo atto è una cruda parabola apocalittica sospesa tra feroce lirismo e pessimismo epico, praticamente muta a parte suoni, grida, lamenti ed un inquietante epitaffio pronunciato nel finale. Il secondo è una satira grottesca, dai tratti volutamente sgradevoli, con il taglio affilato di un libello morale ma dal linguaggio aulico, a tratti pedante nella sua affettazione. Se, a una lettura superficiale, il film può essere giudicato sgradevole o eccessivamente provocatorio (come avvenne puntualmente alla sua uscita in cui fu duramente osteggiato dalla critica), il suo rigore ideologico e la sua caustica denuncia sono incontestabili, pur nelle pieghe scabrose di un regista scomodo per vocazione. La tesi dell’opera è chiara quanto forte: la società è un porcile che distrugge i suoi figli ribelli che ne rifiutano le regole omologatrici. Torna dunque il tema del Potere, ricorrente nelle opere di Pasolini, la sua centralità rispetto all’individuo ed il suo arbitrio feroce rispetto alle coscienze critiche, ai pensieri non omologati, alle idee diverse che, da sempre, sono i suoi acerrimi nemici da abbattere in ogni modo. L’evidente surrealismo dell’opera, che ne riscatta la dignità artistica e ne mortifica ogni possibile accusa di perversa morbosità, intende deformare grottescamente la realtà per enfatizzare quel processo di disumanizzazione scientificamente attuato dai detentori del potere. In questo contesto il cannibalismo diventa la simbologia aberrante di ogni disobbedienza rispetto ai dogmi imposti dall’ordine costituito, il cui unico vero fine è quello di garantire le condizioni alla sua perseveranza. Nel cast Pierre Clementi, Franco Citti, Ninetto Davoli, Jean-Pierre Léaud, Alberto Lionello, Ugo Tognazzi e il regista Marco Ferreri. Ritenuto da molti un film minore nella carriera del grande regista poeta, è, invece, l’ennesimo spietato atto d’accusa contro la prepotenza delle oligarchie spersonalizzanti.

La frase:Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, ed ora tremo di gioia

Voto:
voto: 4,5/5

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