Due storie parallele che si alternano,
una arcaica e l’altra moderna. Nella prima un selvaggio vive in una landa
desolata alle pendici dell’Etna e impara a cibarsi di carne umana, diventando
un efferato cannibale. Verrà catturato dagli abitanti di un villaggio che lo
condannano a una morte orribile: essere sbranato vivo da cani randagi. Nella
seconda lo strambo erede di un impero industriale preferisce la compagnia dei
maiali, con cui intrattiene perversi rapporti sessuali, a quella degli esseri
umani. Incapace di reagire al giogo del dispotico padre, che vorrebbe farlo
sposare con la rampolla di una ricca famiglia, l’uomo si concede
definitivamente ai porci, facendosi divorare da essi. Atroce fiaba allegorica
di Pasolini divisa in due atti complementari, differenti nello stile e nel
tono, che però si rispecchiano l’uno nell’altro per la tematica. Il primo atto
è una cruda parabola apocalittica sospesa tra feroce lirismo e pessimismo epico,
praticamente muta a parte suoni, grida, lamenti ed un inquietante epitaffio
pronunciato nel finale. Il secondo è una satira grottesca, dai tratti
volutamente sgradevoli, con il taglio affilato di un libello morale ma dal
linguaggio aulico, a tratti pedante nella sua affettazione. Se, a una lettura
superficiale, il film può essere giudicato sgradevole o eccessivamente
provocatorio (come avvenne puntualmente alla sua uscita in cui fu duramente
osteggiato dalla critica), il suo rigore ideologico e la sua caustica denuncia sono
incontestabili, pur nelle pieghe scabrose di un regista scomodo per vocazione.
La tesi dell’opera è chiara quanto forte: la società è un porcile che distrugge
i suoi figli ribelli che ne rifiutano le regole omologatrici. Torna dunque il
tema del Potere, ricorrente nelle opere di Pasolini, la sua centralità rispetto
all’individuo ed il suo arbitrio feroce rispetto alle coscienze critiche, ai
pensieri non omologati, alle idee diverse che, da sempre, sono i suoi acerrimi
nemici da abbattere in ogni modo. L’evidente surrealismo dell’opera, che ne
riscatta la dignità artistica e ne mortifica ogni possibile accusa di perversa
morbosità, intende deformare grottescamente la realtà per enfatizzare quel
processo di disumanizzazione scientificamente attuato dai detentori del potere.
In questo contesto il cannibalismo diventa la simbologia aberrante di ogni
disobbedienza rispetto ai dogmi imposti dall’ordine costituito, il cui unico
vero fine è quello di garantire le condizioni alla sua perseveranza. Nel cast Pierre
Clementi, Franco Citti, Ninetto Davoli, Jean-Pierre Léaud, Alberto Lionello, Ugo
Tognazzi e il regista Marco Ferreri. Ritenuto da molti un film minore nella
carriera del grande regista poeta, è, invece, l’ennesimo spietato atto d’accusa
contro la prepotenza delle oligarchie spersonalizzanti.
La frase: “Ho
ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, ed ora tremo di gioia”
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