giovedì 21 aprile 2016

Pasqualino Settebellezze (Pasqualino Settebellezze, 1975) di Lina Wertmüller

Nella Napoli degli anni ’30 vive Pasqualino Frafuso, “guappo” subdolo e approfittatore, ironicamente soprannominato “settebellezze” perché è l’unico maschio di una numerosa famiglia di donne, che conta sette laide sorelle, una più orrida dell’altra. Rinchiuso in manicomio criminale per un delitto d’onore (ha ucciso il “pappone” seduttore di una delle sue sorelle), il nostro riesce a farsi liberare, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, grazie all’arruolamento volontario per la campagna di Russia. Fuggito come disertore, Pasqualino viene catturato dai nazisti e finisce in un campo di concentramento. Ma anche qui la sfanga grazie alla sua innata capacità di adattamento: corteggia una grassa ufficiale del lager che lo prende nelle sue grazie e lo nomina kapò. Pur di salvare la sua vita il viscido Pasqualino non esita ad uccidere Francesco, il suo migliore amico. Tornato a Napoli, dopo la fine del conflitto mondiale, troverà l’intera famiglia che si è arricchita grazie alla prostituzione, mentre la città è in preda a una frenetica euforia per l’arrivo degli alleati. Commedia tragica dai toni amaramente farseschi e crudele satira storico sociale sulla filosofia della sopravvivenza ad ogni costo, che dispensa graffi urticanti ad un tipico malcostume tutto italiano, all’insegna della meschina furbizia e del pavido opportunismo. E’ il miglior film della regista romana, che qui riesce a smussare i suoi eccessi grevi e le sue cadute nel kitsch (in cui solitamente si compiace di sguazzare), in favore di un più accorto senso della misura, corroborato da una felice esuberanza visiva, da un’inedita ricchezza d’invenzioni stilistiche e da personaggi stravaganti ma perfettamente riusciti, pittoreschi simboli dei vizi nazionali. In particolare l’antieroe Pasqualino, interpretato con straordinario mimetismo da un maiuscolo Giancarlo Giannini, che nella sua dimensione grottesca di torvo qualunquista, assume una dimensione di disperata “grandezza” per il suo deprecabile, ma indubbio, talento nell’arte di adattarsi ad ogni situazione. Con questo film in bilico perenne tra comicità e tragedia la Wertmüller nasconde, sotto le pieghe della satira di costume, l’impudente demistificazione degli ideali di eroismo edificante che tante opere di propaganda hanno sempre banalmente accostato alla guerra. La maschera tragica di Pasqualino, più mortifera che vitale, è l’emblema grottesco di un paese miserabile uscito devastato, nel corpo e nello spirito, da un conflitto tragicamente assurdo, in cui era stato spinto dalla sua stessa pavida debolezza. Dal punto di vista stilistico la pellicola ha due volti: uno spiritoso e folcloristico nella prima parte partenopea ed un altro fetido e infernale (con chiari echi danteschi) nel segmento ambientato nel campo nazista. In questo affresco potente, sempre al confine tra lo squallido e il colorito, la scena più intensa è quella in cui un macilento Pasqualino, ridotto a pelle e ossa, cerca di ritrovare la sua maschera seducente con una gamma di espressioni drammaticamente impagabili, in cui Giannini conferma tutte le sue doti di istrionico trasformista. Il film fu un grande successo di pubblico e critica che entusiasmò particolarmente anche gli americani. Ebbe infatti ben quattro nomination “pesanti” agli Oscar 1977 (miglior film straniero, miglior regia, attore protagonista e sceneggiatura originale) ma non vinse alcuna statuetta. La Wertmüller fu però la prima donna ad essere candidata agli Oscar come miglior regista. Vanno anche menzionate la memorabile apparizione di Fernando Rey, nel ruolo di un internato spagnolo nel lager, e le belle musiche di Enzo Jannacci.

Voto:
voto: 4/5

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