Nella
Napoli degli anni ’30 vive Pasqualino Frafuso, “guappo” subdolo e
approfittatore, ironicamente soprannominato “settebellezze” perché è l’unico
maschio di una numerosa famiglia di donne, che conta sette laide sorelle, una
più orrida dell’altra. Rinchiuso in manicomio criminale per un delitto d’onore
(ha ucciso il “pappone” seduttore di una delle sue sorelle), il nostro riesce a
farsi liberare, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, grazie all’arruolamento
volontario per la campagna di Russia. Fuggito come disertore, Pasqualino viene
catturato dai nazisti e finisce in un campo di concentramento. Ma anche qui la
sfanga grazie alla sua innata capacità di adattamento: corteggia una grassa
ufficiale del lager che lo prende nelle sue grazie e lo nomina kapò. Pur di
salvare la sua vita il viscido Pasqualino non esita ad uccidere Francesco, il
suo migliore amico. Tornato a Napoli, dopo la fine del conflitto mondiale,
troverà l’intera famiglia che si è arricchita grazie alla prostituzione, mentre
la città è in preda a una frenetica euforia per l’arrivo degli alleati.
Commedia tragica dai toni amaramente farseschi e crudele satira storico sociale
sulla filosofia della sopravvivenza ad ogni costo, che dispensa graffi
urticanti ad un tipico malcostume tutto italiano, all’insegna della meschina
furbizia e del pavido opportunismo. E’ il miglior film della regista romana,
che qui riesce a smussare i suoi eccessi grevi e le sue cadute nel kitsch (in
cui solitamente si compiace di sguazzare), in favore di un più accorto senso
della misura, corroborato da una felice esuberanza visiva, da un’inedita
ricchezza d’invenzioni stilistiche e da personaggi stravaganti ma perfettamente
riusciti, pittoreschi simboli dei vizi nazionali. In particolare l’antieroe Pasqualino,
interpretato con straordinario mimetismo da un maiuscolo Giancarlo Giannini, che
nella sua dimensione grottesca di torvo qualunquista, assume una dimensione di
disperata “grandezza” per il suo deprecabile, ma indubbio, talento nell’arte di
adattarsi ad ogni situazione. Con questo film in bilico perenne tra comicità e
tragedia la Wertmüller
nasconde, sotto le pieghe della satira di costume, l’impudente demistificazione
degli ideali di eroismo edificante che tante opere di propaganda hanno sempre
banalmente accostato alla guerra. La maschera tragica di Pasqualino, più
mortifera che vitale, è l’emblema grottesco di un paese miserabile uscito
devastato, nel corpo e nello spirito, da un conflitto tragicamente assurdo, in
cui era stato spinto dalla sua stessa pavida debolezza. Dal punto di vista
stilistico la pellicola ha due volti: uno spiritoso e folcloristico nella prima
parte partenopea ed un altro fetido e infernale (con chiari echi danteschi) nel
segmento ambientato nel campo nazista. In questo affresco potente, sempre al
confine tra lo squallido e il colorito, la scena più intensa è quella in cui un
macilento Pasqualino, ridotto a pelle e ossa, cerca di ritrovare la sua
maschera seducente con una gamma di espressioni drammaticamente impagabili, in
cui Giannini conferma tutte le sue doti di istrionico trasformista. Il film fu
un grande successo di pubblico e critica che entusiasmò particolarmente anche
gli americani. Ebbe infatti ben quattro nomination “pesanti” agli Oscar 1977
(miglior film straniero, miglior regia, attore protagonista e sceneggiatura
originale) ma non vinse alcuna statuetta. La Wertmüller fu però la
prima donna ad essere candidata agli Oscar come miglior regista. Vanno anche
menzionate la memorabile apparizione di Fernando Rey, nel ruolo di un internato
spagnolo nel lager, e le belle musiche di Enzo Jannacci.
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