Secondo
capitolo, dopo Dogville,
della trilogia americana di Lars von Trier sugli USA, terra delle opportunità,
ancora in attesa del terzo e conclusivo episodio. Grace abbandona le montagne
rocciose e giunge nella cittadina di Manderlay, in Alabama, dove i neri sono
tenuti in schiavitù dai ricchi bianchi proprietari terrieri. Grazie ai gangster
della banda di suo padre la donna decide di utilizzare la forza per imporre la
democrazia nella piccola comunità, cercando di ottenere la convivenza
“pacifica” tra razze diverse. Ma alla fine dovrà rinunciare al suo progetto,
dopo aver scoperto che la libertà imposta non è vera libertà e che la comunità
di colore, non abituata all’indipendenza, non è capace di vivere senza un
padrone. Provocatorio, scorretto e graffiante apologo sullo schiavismo del
geniale autore danese che, sebbene ambientato negli anni della grande
depressione, intende parlarci della politica estera contemporanea americana,
ovvero della guerra in Iraq di cui l’intero film è un’acida metafora. Il
patetico tentativo di Grace di imporre il proprio concetto di democrazia con
l’uso della forza corrisponde esattamente a quanto fatto dagli USA in medio
oriente, utilizzando la scusante della minaccia terroristica e delle armi di
distruzione di massa. Il regista prosegue dunque il suo oscuro viaggio nella
cattiva coscienza dell’America, mettendone alla berlina il “Sogno” e svelandone
la cinica natura rapace, fondata sul profitto e sulla prevaricazione a danno
dei più deboli. La pellicola ha la medesima struttura del film precedente con
la narrazione articolata in otto capitoli, l’utilizzo di scenografie minimali
(spesso disegnate sul pavimento di un set chiuso che fa da ambiente
contenitore) e la macchina da presa a spalla secondo i canoni del “Dogma”. Ma
se Dogville
è essenzialmente una parabola filosofico-antropologica, questo secondo film
possiede uno spiccato taglio politico, facilmente estendibile a cupo racconto
allegorico sul potere e le sue pratiche. E come nel primo capitolo anche qui
l’evidente gioco di finzione scenica, volutamente esibito (per scopi
stranianti) tramite l’artificio scenografico, viene arditamente ribaltato dalla
ricca galleria di immagini reali che scorrono sui potenti titoli di coda, che
consolidano e stratificano il senso beffardo dell’opera. Ancora una volta
l’implacabile ma lucido teorema messo in atto dall’autore appare come un
supremo atto di accusa nei confronti della nazione simbolo del capitalismo, un
atto d’accusa non privo di quell’enfasi provocatoria tipica di von Trier. Il
meccanismo ideologico alla base del film è perfetto e geometrico ma chiaro fin
dall’inizio e, quindi, prevedibile. Ed è questo il solo “peccato originale” di
un film splendido e complesso, ma meno geniale, meno viscerale e meno
universale rispetto al suo predecessore. Il grande cast vede la sostituzione
dei due attori principali: con Bryce Dallas Howard al posto di Nicole Kidman
(che uscì così provata dall’esperienza di Dogville
che non volle più saperne di lavorare con von Trier) e Willem Dafoe al posto di
James Caan, a cui si affiancano Lauren Bacall, Udo Kier, Danny Glover, Isaach De
Bankolé e Chloë Sevigny (molti dei quali ritornano in altri ruoli rispetto al
capitolo precedente). E aspettando Washington,
ovvero la terza parte della sua trilogia americana, von Trier ci consegna un
altro memorabile tassello della sua graffiante epopea brechtiana sugli USA, un
cupo viaggio attraverso i vizi, le ipocrisie e le meschinità di un paese paradossalmente
vittima della sua stessa grandezza, in cui la “grazia” (Grace) è pronta a
restituire tutti i colpi che subisce, pur di non soccombere. L’occhio per
occhio, matrice ancestrale della cultura americana, è dunque il perno su cui si
fonda il suo sbandierato senso religioso nazionale. Retaggio della vecchia
frontiera e fautore di un imperialismo mascherato da garantismo. Ed è esattamente
questo che ci dice quel “ragazzaccio” di Lars von Trier. Forte e chiaro, e senza
sconti.
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