Giuliana, borghese depressa e nevrotica,
moglie di un ingegnere ravennate, non riesce a riprendersi dopo lo shock di un
incidente stradale in cui ha tentato il suicidio. Esausta della routine
matrimoniale e degli agi di una vita inerte, diventa l’amante di Corrado, amico
di suo marito, l’unico con cui sembra riuscire a stabilire un reale contatto
umano al di là del conformismo. Ma, ben presto, capirà che il suo tormento è
più profondo e che la relazione con l’uomo non basta a guarirla. Il nono film
di Antonioni (il suo primo a colori) è un nuovo affresco sulla crisi
esistenziale della società consumistica, in cui la donna appare, nuovamente, la
figura più sensibile per coglierne gli effetti e subirne il nevrotico tormento
interiore. Queste tematiche sono già state esaustivamente sviscerate
dall’autore nelle sue splendide opere precedenti, pertanto qui egli cerca di
introdurre degli elementi di novità, soprattutto stilistici, attraverso l’utilizzo
sperimentale del colore (i cromatismi espressionisti della pellicola sono
straordinari), la prospettiva in soggettiva (quella distorta di Giuliana,
pertanto la “realtà” ci appare costantemente dissociata e disumanizzata,
infrangendo spesso la sintassi filmica) e l’aggiunta di alcuni elementi
estranei, ma influenti, rispetto al rapporto percettivo tra l’io e l’ambiente
sociale (l’inquinamento naturale prodotto dal benessere economico). Giuliana
(ancora interpretata con magistrale intensità da Monica Vitti, musa e amante
del regista) è una protagonista sulla falsa riga delle precedenti. La sua
profonda alienazione nasce dall’incapacità di adattarsi ai nuovi cambiamenti
sociali e di costume portati dal boom economico e dalla civiltà industriale che
ha prodotto una realtà spersonalizzante, fondata sul materialismo e
sull’edonismo, che presto si trasforma in tedio esistenziale. Il deserto del
titolo è quello interiore, il deserto di un’esistenza vuota, inutile e senza
speranza di riscatto personale. Il rosso allude, ovviamente, al colore
dominante della bella fotografia di Carlo Di Palma. La pellicola, che ebbe
scarso successo alla sua uscita ma fu premiata al Festival del Cinema di
Venezia con il Leone d’Oro, contiene almeno una sequenza memorabile: un sogno di
evasione, raccontato da Giuliana a suo figlio, girato sulla celebre spiaggia
rosa di Budelli, in Sardegna, e completamente diverso, per tono ed estetica,
rispetto al resto del film. La celebre battuta (“mi fanno male i capelli”), pronunciata dalla Vitti con ammirevole
credibilità, come metafora di un malessere assoluto e profondo, è rimasta un
simbolo del cinema di Antonioni. I suoi detrattori hanno sempre giudicato
questo film un insostenibile, delirante e ripetitivo esercizio di vacuo
estetismo stilistico. A mio avviso, pur aggiungendo poco dal punto di vista
tematico rispetto alle opere precedenti, vale come raggelante poema dedicato
alla sensualità della Vitti, a metà strada tra il melodramma, lo psicodramma e
la denuncia “politica”.
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