martedì 12 aprile 2016

Il deserto rosso (Il deserto rosso, 1964) di Michelangelo Antonioni

Giuliana, borghese depressa e nevrotica, moglie di un ingegnere ravennate, non riesce a riprendersi dopo lo shock di un incidente stradale in cui ha tentato il suicidio. Esausta della routine matrimoniale e degli agi di una vita inerte, diventa l’amante di Corrado, amico di suo marito, l’unico con cui sembra riuscire a stabilire un reale contatto umano al di là del conformismo. Ma, ben presto, capirà che il suo tormento è più profondo e che la relazione con l’uomo non basta a guarirla. Il nono film di Antonioni (il suo primo a colori) è un nuovo affresco sulla crisi esistenziale della società consumistica, in cui la donna appare, nuovamente, la figura più sensibile per coglierne gli effetti e subirne il nevrotico tormento interiore. Queste tematiche sono già state esaustivamente sviscerate dall’autore nelle sue splendide opere precedenti, pertanto qui egli cerca di introdurre degli elementi di novità, soprattutto stilistici, attraverso l’utilizzo sperimentale del colore (i cromatismi espressionisti della pellicola sono straordinari), la prospettiva in soggettiva (quella distorta di Giuliana, pertanto la “realtà” ci appare costantemente dissociata e disumanizzata, infrangendo spesso la sintassi filmica) e l’aggiunta di alcuni elementi estranei, ma influenti, rispetto al rapporto percettivo tra l’io e l’ambiente sociale (l’inquinamento naturale prodotto dal benessere economico). Giuliana (ancora interpretata con magistrale intensità da Monica Vitti, musa e amante del regista) è una protagonista sulla falsa riga delle precedenti. La sua profonda alienazione nasce dall’incapacità di adattarsi ai nuovi cambiamenti sociali e di costume portati dal boom economico e dalla civiltà industriale che ha prodotto una realtà spersonalizzante, fondata sul materialismo e sull’edonismo, che presto si trasforma in tedio esistenziale. Il deserto del titolo è quello interiore, il deserto di un’esistenza vuota, inutile e senza speranza di riscatto personale. Il rosso allude, ovviamente, al colore dominante della bella fotografia di Carlo Di Palma. La pellicola, che ebbe scarso successo alla sua uscita ma fu premiata al Festival del Cinema di Venezia con il Leone d’Oro, contiene almeno una sequenza memorabile: un sogno di evasione, raccontato da Giuliana a suo figlio, girato sulla celebre spiaggia rosa di Budelli, in Sardegna, e completamente diverso, per tono ed estetica, rispetto al resto del film. La celebre battuta (“mi fanno male i capelli”), pronunciata dalla Vitti con ammirevole credibilità, come metafora di un malessere assoluto e profondo, è rimasta un simbolo del cinema di Antonioni. I suoi detrattori hanno sempre giudicato questo film un insostenibile, delirante e ripetitivo esercizio di vacuo estetismo stilistico. A mio avviso, pur aggiungendo poco dal punto di vista tematico rispetto alle opere precedenti, vale come raggelante poema dedicato alla sensualità della Vitti, a metà strada tra il melodramma, lo psicodramma e la denuncia “politica”.

Voto:
voto: 4/5

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