giovedì 21 aprile 2016

Era mio padre (Road to Perdition, 2002) di Sam Mendes

Nella Chicago del proibizionismo il gangster irlandese John Rooney dirige con fermezza i suoi loschi affari, come il gioco d’azzardo e il contrabbando di alcolici, avvalendosi di uomini fidati come Mike Sullivan, spietato sicario verso cui nutre un affetto “paterno”. Ma tutto cambia quando il figlio adolescente di Sullivan, Michael junior, ignaro delle attività criminali di suo padre, lo vede commettere un omicidio insieme al depravato Connor Rooney, figlio violento e scapestrato del boss. Per timore che il piccolo Sullivan possa parlare il truce Connor ne uccide la madre e il fratello più piccolo, provocando la reazione violenta di Sullivan e dando inizio a una sanguinosa faida interna alla banda. In disperata fuga col suo unico figlio superstite, Mike Sullivan, cercherà in tutti i modi di salvarlo da un atroce destino. Noir manierista di Mendes, che adatta per il grande schermo una graphic novel di Max Allan Collins, spostandone l’azione dall’Irlanda agli Stati Uniti degli anni ’30. Lussuoso nella confezione estetica ma gelido nel tono narrativo, questo cupo film gangsteristico si ispira chiaramente ai moderni classici della tradizione, con un occhio particolare ai capolavori di Coppola e di Leone. Anche se non aggiunge nulla di nuovo al genere è diretto con indubbia eleganza, è sontuoso nell’imponente ricostruzione d’epoca e si avvale di un cast stellare (Tom Hanks, Paul Newman, Jude Law, Jennifer Jason Leigh, Daniel Craig, Stanley Tucci e il piccolo Tyler Hoechlin) e di alcune sequenze magnifiche come il massacro notturno sotto la pioggia battente. Eppure qualcosa sembra costantemente mancare ad un film tanto imponente quanto freddo, che predilige l’aspetto lirico a quello strettamente criminale, come un intimo dramma esistenziale (consumato nel rapporto padre figlio durante il simbolico viaggio di espiazione e redenzione) travestito da cinema di genere. Mantenendo una certa distanza dai suoi protagonisti l’autore gira con compostezza, alternando la potenza degli splendidi campi lunghi sugli sterminati spazi della provincia americana agli stretti primi piani sulle espressioni dei personaggi, per rimarcarne la connotazione psicologica. Ma, probabilmente, il lato debole dell’opera risiede propria in questa sua natura ibrida, e non del tutto riuscita, di viaggio interno ad un legame profondo come quello tra un genitore e un figlio, collocato in una dimensione di brutale violenza di cui i Sullivan e i Rooney rappresentano i poli opposti, secondo la tipica divisione manichea tra bene e male. Nel cast spiccano un intenso Paul Newman, nell’ultima interpretazione della sua leggendaria carriera, e un inquietante Jude Law, il cui sinistro personaggio (il fotografo della morte) è uno di quelli che restano maggiormente impressi. Tom Hanks, al suo primo ruolo da “cattivo”, si limita ad una performance dignitosa, ma appare a volte troppo monocorde nel suo tono perennemente trattenuto. Il film ha avuto sei nomination agli Oscar ma ha vinto solo quello per la fotografia di Conrad L. Hall.

Voto:
voto: 3,5/5

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