giovedì 14 aprile 2016

Cape Fear - Il promontorio della paura (Cape Fear, 1991) di Martin Scorsese

Max Cady è un sadico stupratore che si è fatto 14 anni di carcere per aver violentato una giovane donna. Alla sua uscita di prigione va a cercare il suo avvocato, Sam Bowden, che durante il processo, a causa di antipatie personali, ha omesso delle prove documentali che avrebbero portato a una pena più mite nei suoi confronti. Cady ha giurato di fargliela pagare e inizia a perseguitare Bowden e la sua famiglia, composta dalla bella moglie Leigh e dalla figlia adolescente Danielle. Inizialmente le azioni di disturbo operate da Cady restano nei limiti della legalità ma, ben presto, l’uomo rivela la sua natura di violento psicopatico e darà il via ad un aberrante gioco di morte, con un duello all’ultimo sangue tra lui e la famiglia Bowden. Tratto dal romanzo “The Executioners” di John D. MacDonald, questo cupo thriller agghiacciante è la prima vera incursione di Scorsese nel cinema “di genere”. E’ anche il remake di Il promontorio della paura (1962) di J. Lee Thompson, di cui Scorsese decide di riportare sullo schermo i protagonisti, Martin Balsam, Gregory Peck e Robert Mitchum, affidandogli un piccolo ruolo che, nel caso di Peck e Mitchum, ribalta quello precedente. E’ un film su commissione, spettacolare, angosciante, a volte plateale e con tutti i limiti derivativi di un genere fortemente stereotipato ed abusato. Eppure la mano del grande regista si vede e lo eleva ben al di sopra dei suoi consimili grazie alla sapiente costruzione drammatica, alla fervida ambiguità tematica ed alla torbida carica erotica che gli conferisce un fascino oscuro solitamente inusuale in prodotti di questo tipo. In tutta la prima parte (la migliore) l’autore gioca abilmente con lo spettatore nel presentarci due personaggi ugualmente spregevoli, Cady e Bowden, al punto che, spesso, si è portati a parteggiare per il primo. Questo processo di inconscia “simpatia” per il cattivo rimanda direttamente a grandi maestri, come Kubrick o Peckinpah, che hanno fatto scuola nella cinematografia della violenza, donandole uno spessore autorevole e delle implicazioni psicoanalitiche di grande valenza simbolica. La memorabile scena, che ammicca alla favola di “Cappuccetto rosso”, in cui il diabolico Cady “seduce” psicologicamente la giovane Danielle, acerba e maliziosa, è il climax emotivo del film e gli conferisce una malia sinistra e disturbante che suscita non poche vertigini morali nello spettatore. Peccato che la seconda parte scivoli nell’esasperazione dei toni e negli eccessi violenti, con le tipiche esagerazioni hollywoodiane di un cattivo indistruttibile che non muore mai, proprio come il rimorso che egli rappresenta. Dunque abbiamo luci e ombre in un film disomogeneo, ma, quando si vede la mano del regista, ci troviamo di fronte a puro godimento cinefilo. Nel grande cast, tra Robert De Niro all’apice del suo istrionismo fisico, Nick Nolte in sordina e Jessica Lange costantemente spaurita, spicca la conturbante Juliette Lewis, candidata all’Oscar come non protagonista. Le musiche del film sono le stesse (rielaborate) dell’originale, composte dal leggendario Bernard Herrmann, storico collaboratore di Hitchcock. E come omaggio al grande maestro del brivido, Scorsese ci regala dei “colti” titoli di testa identici a Psycho.

Voto:
voto: 3,5/5

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