lunedì 11 aprile 2016

Ludwig (Ludwig, 1973) di Luchino Visconti

Nel 1864 il giovane Ludwig Wittelsbach sale sul trono di Baviera con il nome di Ludwig II. Animato da uno spirito romantico, idealista e appassionato dell’arte e del bello, Ludwig s’ispira ai sovrani rinascimentali e dona risalto e considerazione al compositore Richard Wagner, facendogli assumere un ruolo di spicco presso la sua corte. Osteggiato dai suoi consiglieri ed emarginato dal governo dopo la sconfitta nella guerra franco-prussiana, il nostro si abbandona ad una vita da esteta utopista, deluso dai tradimenti e amareggiato per l’amore non corrisposto per la cugina Elisabetta, moglie dell’imperatore d’Austria. Perso tra comportamenti stravaganti e amori omosessuali, Ludwig finirà esautorato per infermità mentale e morirà in circostanze misteriose, annegato in un lago insieme al suo medico di fiducia. Ultimo capitolo della “trilogia tedesca” di Visconti, è un maestoso dramma introspettivo sull’identità sfuggente di un visionario anacronistico tormentato dal suo stesso estetismo, un cigno impazzito innamorato di splendide utopie, un Amleto in guerra contro il conformismo di corte, schiacciato dal peso della Storia e dalla sua innata inclinazione all’austera decadenza. Molti hanno voluto vedere nel dolente personaggio di Ludwig una proiezione ideale del regista stesso, una sorta di autobiografia inconfessata e ciò potrebbe spiegare l’evidente “rapporto” conflittuale e problematico che il Maestro milanese dimostra nei confronti del protagonista nel corso del film. Il percorso di Ludwig appare come un mistico calvario onirico, le cui stazioni sono i fallimenti di un sognatore forsennato, sospeso tra ambizione smodata, impeto passionale e sofisma formale. La vita infausta e bizzarra dell’ultimo re di Baviera diventa l’emblema della decadenza europea, raffigurata da Visconti con stile operistico, alto senso tragico ed un sontuoso formalismo decorativo. Tuttavia il trionfalismo scenografico, il monumentale estetismo e l’opulenza ornamentale non risultano mai artificiosi e autoreferenziali, perché l’opera possiede una veemente anima tragica, una dolente teatralità che mette in scena l’esaltazione, la follia e la disperazione attraverso il paradosso di una vita dedita all’arte che finisce per smarrire le sue coordinate, al punto che non è più possibile distinguerle tra loro. Vita e arte si sovrappongono e si confondono in un delirio di struggente malinconia, in cui l’irrequietezza sessuale rappresenta la trasgressione disperata. Quello che però rende il film più debole rispetto ai precedenti della “trilogia tedesca” è il senso di stanchezza che traspare, a tratti, dalla sua narrazione rapsodica, dalla prolissità di certe sequenze didattiche e dalla piattezza dei personaggi secondari. Probabilmente troppo lungo (quattro ore nella versione originale, poi ridotte a tre in quella distribuita nelle sale) e troppo aulico nella sua ridondanza, viene considerato il testamento storico dell’autore e si avvale di interpretazioni eccellenti, specialmente da parte del protagonista Helmut Berger e di un’elegante Romy Schneider nei panni (a lei congeniali) dell’imperatrice d’Austria. Bravi anche Silvana Mangano e Umberto Orsini, mentre Trevor Howard, nel ruolo di Wagner, appare un po’ spaesato. Viscontiano fino al midollo, può essere usato come manifesto di pregi e difetti del suo autore.

Voto:
voto: 3,5/5

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