lunedì 4 aprile 2016

Viaggio in Italia (Viaggio in Italia, 1954) di Roberto Rossellini

Alex e Katherine, due inglesi sposati da otto anni, benestanti e conformisti, arrivano a Napoli per vendere un appartamento che hanno ereditato. Ne approfittano per un lungo giro turistico attraverso le bellezze naturali, storiche e artistiche della Campania. Trovandosi per la prima volta completamente soli, stranieri in un mondo per loro straniero, di cui riescono a cogliere il fiero incanto senza capirne le usanze, i due si scopriranno distanti, diversi ed in profonda crisi coniugale. Tra alti e bassi oscilleranno pericolosamente sul filo tra divorzio e riconciliazione. Straordinario capolavoro di Rossellini, rigoroso nel suo stile sobrio, lucido nell’analisi psicologica, rivoluzionario per densità tematica ed influenza sul cinema a venire. Assolutamente inedita e ardita la commistione tra alienazione borghese e sfondo neorealista, un innesto geniale che sembra unire, in un unico gesto artistico, due mondi: il freddo lirismo introspettivo del cinema nordico di Ingmar Bergman ed il colorito realismo in presa diretta del neorealismo italiano. Per questa sua inconsapevole intuizione Rossellini crea un film d’avanguardia e di rottura rispetto ai suoi tempi, anticipando tendenze e movimenti che esploderanno negli anni ’60 come la Nouvelle Vague francese o il cinema della crisi esistenziale di Antonioni. Alla sua uscita fu distrutto dalla miope critica italiana che non ne capì l’originalità e ne detestò l’apparente mancanza di scheletro narrativo: il film è nato con una sceneggiatura appena abbozzata e tra molte improvvisazioni, inoltre l’immersione totale dei due protagonisti nel colorito e rumoroso mondo campano è stata totalmente reale perché il cast e la crew hanno lavorato esattamente in quel modo. I francesi lo adorarono fin da subito, J. Rivette disse che, dopo l’uscita di questo film, tutti gli altri invecchiarono di colpo di dieci anni, e, col tempo, quasi tutti i critici mondiali gli hanno riconosciuto lo status di capolavoro. E’ una delle pellicole che hanno maggiormente influenzato la formazione cinefila di Martin Scorsese che gli ha dedicato uno splendido documentario, Il mio viaggio in Italia (1999), che omaggia il cinema italiano dell’epoca d’oro. Il viaggio turistico dei due coniugi è, in realtà, un viaggio interiore che affronta il non detto di una coppia, quell’inevitabile cumulo di silenzi, di compromessi, di delusioni, di reticenze e di inganni reciproci che ne minano il ciclo di vita, tutte solitamente ben celate sotto la quieta patina del perbenismo quotidiano che mortifica la libertà del desiderio individuale. Lo straniamento derivato dal trovarsi in un mondo a loro alieno, un mondo caldo, accogliente, affascinante e chiassoso, che disturba lui e pervade lei, provoca l’emersione inesorabile di quelle crepe troppo a lungo tenute nascoste in nome di una pavida routine quotidiana. I continui dubbi dei due protagonisti sul dove essi si trovino fa combaciare la perdita di coordinate geografiche con lo smarrimento esistenziale, sentimentale e morale, dovuto al vizio intrinseco del loro rapporto ormai logoro. La continua sovrapposizione tra viaggio esteriore e percorso interiore viene continuamente riaffermata dall’itinerario simbolico osservato da Katherine, che, passando dall’antro della Sibilla cumana agli scavi di Pompei, attraversa diversi stati della sua coscienza in cui dubita o acquisisce nuove consapevolezze su se stessa e su ciò che la lega e la divide da Alex. La splendida sequenza finale della processione per le strade di Maiori, con il “miracolo” che sembra ricongiungere la coppia, è un altro colpo di genio, un alto esempio di religiosità laica che si fa utopia di una visione più intima, rivolta dentro gli imperscrutabili abissi che regolano la vita di coppia. Una sottile commistione di sacro e profano che intende riunire sotto la stessa coltre intellettuale due grandi misteri, quello dell’amore e quello della religione, entrambi riconducibili ad un atto di fede. Anche dal punto di vista tecnico questo film, apparentemente scarno e minimalista, ha enormi pregi che sanno di modernità: l’uso del sonoro senza filtri e in presa diretta, il montaggio libero, la luce abbagliante degli scenari assolati del sud utilizzata in modo espressionista, l’andamento frammentario della narrazione che procede negando l’azione e consacrandosi alla sua attesa. L’evidente differenza tra l’algido aplomb britannico dei coniugi e il variopinto calore mediterraneo del popolo campano non unisce maggiormente la coppia, ma finisce per sgretolarla amplificandone le enormi incompatibilità troppo a lungo taciute sotto l’egida della madre patria. Nel cinema di Rossellini gli ambienti e gli spazi non sono mai statici sfondi decorativi ma assumono la valenza pregnante di un vero protagonista, un “essere” animato, pulsante, inquieto, capace di innescare percorsi interiori, di creare moti dell’animo e di influenzare i comportamenti umani. Come quasi tutti i film del Maestro italiano, anche questo è profondamente autobiografico. Infatti la materia trattata è affine alla reale situazione sentimentale vissuta da Rossellini e la Bergman in quel periodo, in cui il loro controverso rapporto (che aveva suscitato enormi scandali e indignazioni  da parte dei benpensanti) era in un momento di crisi. Questo è stato il terzo film di Rossellini con sua moglie Ingrid Bergman splendida protagonista, insieme a George Sanders nel ruolo di Alex. E’ un’opera imperdibile e difficile come quasi tutti i capolavori dell’autore.

Voto:
voto: 5/5

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