Uno speciale reparto militare, dislocato
ad Arlington in Virginia, si occupa di fare da guardia d’onore ai funerali dei
caduti della guerra in Vietnam, al ritorno in patria delle loro salme. In questo
prestigioso corpo prestano servizio due reduci veterani, pluridecorati e legati
da profonda amicizia: i sergenti Hazard e Nelson. I due uomini, impeccabili
quanto disincantati, si affezionano alla giovane recluta Willow, in cui
rivedono i loro vecchi ideali giovanili. Dovranno rassegnarsi a vederlo partire
per il Vietnam, carico di ardimentosi principi, per poi vederne tornare la
salma, pronta ad essere accolta dal loro picchetto d’onore. Otto anni dopo il
capolavoro assoluto Apocalypse
Now, Coppola ritorna a parlare di Vietnam con questo intenso dramma che
ci offre una prospettiva rovesciata rispetto al suo leggendario predecessore:
la guerra dal punto di vista di chi resta a casa e ne affronta, impotente, i
dolorosi effetti. Anche se non si vede mai in modo esplicito, l’ombra della
“sporca guerra” incombe su tutto il film e determina le azioni dei
protagonisti. In tal senso la posizione antimilitarista del regista è sancita
dall’amara disillusione dei due ottimi protagonisti, interpretati con efficace
senso della misura da James Caan (alla sua ultima collaborazione con l’autore
italoamericano) e James Earl Jones. Il film procede in tono sommesso, conforme
al mesto servizio effettuato dai due amici veterani, scegliendo un registro
ovattato ma anche attento nello scandaglio del dolore di chi la guerra l’ha
vista in faccia, ne è uscito indenne e adesso è costretto a contarne i caduti,
pur nella convinzione della sua assurda inutilità. Se dal punto di vista
tecnico la confezione è eccellente e rigorosa nella sua vena elegiaca, la
pellicola si perde, a volte, in eccessi di sentimentalismo, anche se la sua
pietosa carica umana viene ben temperata dalle ottime prove attoriali dei interpreti
principali. Ed è proprio la pietà, insieme all’amara rassegnazione, il
sentimento che emerge più chiaramente da quest’ode funerea e sfiduciata, in cui
le cicatrici sono solchi profondi, scavati nell’animo in maniera così indelebile
da eliminare ogni alone di speranza. La guerra non c’è, il Vietnam è lontano,
ma la sua tragedia incombe con una feroce ricorrenza a cui è impossibile
sottrarsi e verso la quale l’unica emozione rimasta è il cordoglio, un triste
rituale di seppellimento ormai mandato a memoria, ma sempre ugualmente pesante
nel cuore di chi resta. Coppola cerca di fare un film sulla guerra diverso,
d’altra parte non avrebbe senso riaccodarsi ad un panorama così tanto abusato
di cui lui stesso è già leader indiscusso, visto che ha diretto il più grande war movie mai realizzato. Il suo intento
riesce solo in parte perché il senso di rassegnazione di questo epitaffio del
fatalismo è talmente ineluttabile da togliere forza e interesse alla pellicola,
che alla fine risulta quasi scontata nel suo programmatico dolorismo. L’indignazione
per lo spreco di vite umane permane, ma la forza della denuncia viene
indebolita dalla schematicità del meccanismo alla base del film, una triste
ballata di disperazione trattenuta.
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