martedì 5 aprile 2016

Giardini di pietra (Gardens of Stone, 1987) di Francis Ford Coppola

Uno speciale reparto militare, dislocato ad Arlington in Virginia, si occupa di fare da guardia d’onore ai funerali dei caduti della guerra in Vietnam, al ritorno in patria delle loro salme. In questo prestigioso corpo prestano servizio due reduci veterani, pluridecorati e legati da profonda amicizia: i sergenti Hazard e Nelson. I due uomini, impeccabili quanto disincantati, si affezionano alla giovane recluta Willow, in cui rivedono i loro vecchi ideali giovanili. Dovranno rassegnarsi a vederlo partire per il Vietnam, carico di ardimentosi principi, per poi vederne tornare la salma, pronta ad essere accolta dal loro picchetto d’onore. Otto anni dopo il capolavoro assoluto Apocalypse Now, Coppola ritorna a parlare di Vietnam con questo intenso dramma che ci offre una prospettiva rovesciata rispetto al suo leggendario predecessore: la guerra dal punto di vista di chi resta a casa e ne affronta, impotente, i dolorosi effetti. Anche se non si vede mai in modo esplicito, l’ombra della “sporca guerra” incombe su tutto il film e determina le azioni dei protagonisti. In tal senso la posizione antimilitarista del regista è sancita dall’amara disillusione dei due ottimi protagonisti, interpretati con efficace senso della misura da James Caan (alla sua ultima collaborazione con l’autore italoamericano) e James Earl Jones. Il film procede in tono sommesso, conforme al mesto servizio effettuato dai due amici veterani, scegliendo un registro ovattato ma anche attento nello scandaglio del dolore di chi la guerra l’ha vista in faccia, ne è uscito indenne e adesso è costretto a contarne i caduti, pur nella convinzione della sua assurda inutilità. Se dal punto di vista tecnico la confezione è eccellente e rigorosa nella sua vena elegiaca, la pellicola si perde, a volte, in eccessi di sentimentalismo, anche se la sua pietosa carica umana viene ben temperata dalle ottime prove attoriali dei interpreti principali. Ed è proprio la pietà, insieme all’amara rassegnazione, il sentimento che emerge più chiaramente da quest’ode funerea e sfiduciata, in cui le cicatrici sono solchi profondi, scavati nell’animo in maniera così indelebile da eliminare ogni alone di speranza. La guerra non c’è, il Vietnam è lontano, ma la sua tragedia incombe con una feroce ricorrenza a cui è impossibile sottrarsi e verso la quale l’unica emozione rimasta è il cordoglio, un triste rituale di seppellimento ormai mandato a memoria, ma sempre ugualmente pesante nel cuore di chi resta. Coppola cerca di fare un film sulla guerra diverso, d’altra parte non avrebbe senso riaccodarsi ad un panorama così tanto abusato di cui lui stesso è già leader indiscusso, visto che ha diretto il più grande war movie mai realizzato. Il suo intento riesce solo in parte perché il senso di rassegnazione di questo epitaffio del fatalismo è talmente ineluttabile da togliere forza e interesse alla pellicola, che alla fine risulta quasi scontata nel suo programmatico dolorismo. L’indignazione per lo spreco di vite umane permane, ma la forza della denuncia viene indebolita dalla schematicità del meccanismo alla base del film, una triste ballata di disperazione trattenuta.

Voto:
voto: 3,5/5

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