Biografia anomala del “leggendario” bandito Salvatore Giuliano,
giovane siciliano di Montelepre, ladro di ricchi, ribelle separatista, “eroe”
popolare e strumento manipolato dalla mafia. La sua morte misteriosa, ancora
densa di punti oscuri, fu, per molti, un primo esempio di “accordo” tra stato e
“cosa nostra”. Capolavoro assoluto di Rosi, maestro del cinema “impegnato” a
sfondo sociale e politico, che tra cronaca, storia e dramma ci restituisce una
superba ricostruzione, di magistrale splendore formale e di alta densità
tematica, della Sicilia e dell’Italia degli anni ’40. Forte di una sceneggiatura
granitica, di una sontuosa fotografia in bianco e nero e di una struttura a flashback che dona un ritmo serrato al
continuo gioco di salti temporali, ha la forza epica della grande tragedia
storica, il realismo potente del documentario, la lucidità rigorosa
dell’inchiesta, l’audacia corrosiva del libello politico e la coerenza critica
dell’analisi sociale. Profondo e solenne nell’indagine di uno dei più subdoli
misteri italiani, trova la massima genialità espressiva nella scelta di
lasciare fuori fuoco Giuliano, inquadrato sempre di spalle o da lontano, per
simboleggiare che il vero protagonista dell’opera non è il bandito, ma il
contesto sociale: quell’intricato sottobosco di poteri, interessi e connivenze
tra politica e mafia nella Sicilia del dopoguerra. Con la classe del narratore
di razza ed il puntiglio del giornalista mordace, Rosi mette a nudo,
impietosamente, i mali e le cancrene di un’isola e di una nazione, dando vita
al più grande film italiano di mafia mai realizzato. Paradigmatico e lungimirante
nella sua analisi degli intrecci loschi tra istituzioni e malavita, abbandona, definitivamente,
quell’ingenua impronta di colore locale con cui era stata, fino ad allora,
ritratta la mafia dal nostro cinema, aggiungendovi un tono di sinistra valenza
ed inquietante attualità, che la raffigura come fenomeno brutale, nazionale e
colluso con frange corrotte dei poteri forti.
La scelta di frammentare la linearità del racconto con i salti
temporali, perfetta dal punto di vista drammaturgico, non fa mai perdere i pur
complessi legami causa-effetto tra gli avvenimenti, a testimonianza di un
lavoro registico magistrale. E l’idea, rivoluzionaria, di scardinare il più
classico degli espedienti narrativi, ovvero l’identificazione del pubblico con
il protagonista, che qui è sempre lasciato sullo sfondo, serve a portare alla
ribalta la storia, chiedendo allo spettatore non solo un coinvolgimento
emotivo, ma uno sforzo critico, analitico ed interpretativo dei fatti mostrati.
Beffardamente Rosi regala il maggior numero di inquadrature a Giuliano solo quando
ce ne mostra il cadavere, simbolo ingombrante ed emblematico di intrighi
nascosti, di corruzione politica e di quei tanti misteri italiani che ancora
cercano la verità. Autentico corpo di un reato commesso da quelle forze
manipolatrici che sono la radice di un male antico, che parte dai palazzi
romani per arrivare alle polverose strade dell’aspra campagna siciliana.
Evitando brillantemente, da un lato, le trappole dell’agiografia criminale e,
dall’altro, quelle del qualunquismo populista, l’autore disegna uno scenario
inquietante quanto rigoroso, in cui non c’è bisogno di far nomi o mostrar volti
per donare credibilità alla veemente denuncia: il colpevole viene, argutamente,
individuato in quella perversa dinamica di interessi politico-economici che diventa
metodo, regola, sistema. Numerosi i momenti di volo alto di questo capolavoro
assoluto, impaginati con stili fotografici diversi per aumentarne il risalto
simbolico: dalla strage di Portella della Ginestra, di memorabile epica tragica,
al punto che molti hanno scomodato Ejzenštejn, alla madre di Giuliano che
piange sul corpo del figlio, pagina di incredibile forza poetica che rimanda
alle raffigurazioni cristologiche del Mantegna. E merita una citazione anche la
sequenza del tribunale, profondamente neorealista, intrisa di vena polemica e
caustico sarcasmo, che la rendono un monumento all’indignazione popolare e alla
denuncia civile. Il grande bluff della morte del bandito Giuliano, omicidio
politico mascherato da regolamento di conti mafioso, trova pieno compimento
nell’amaro finale, in cui il regista sceglie di “slegare” gli eventi,
mostrandoceli con il piglio duro e sfrontato della cronaca “d’assalto”. Nonostante
il patetico tentativo di veto censorio, il divieto ai minori di 16 anni,
indotto dalla classe politica nazionale, fortemente indignata, il film fu un grande
successo di pubblico e critica, e fu premiato con l’Orso d’Argento alla regia
al Festival del Cinema di Berlino del 1962. Con La battaglia di Algeri di Pontecorvo è, probabilmente, l’esempio
artisticamente più alto di fusione tra cinema e documentario, in cui storia e
dramma convergono in un mèlange di solenne
forza tragica.
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