Danny Berman è uno scrittore fallito, un
uomo miserabile e disperato, abbrutito dal vizio dell’alcool che lo ha privato
di ogni dignità. Vive a spese del fratello ed è sostenuto “eroicamente” dalla
sua donna, che gli perdona tutto e lo aiuta sempre, al limite del masochismo.
Succube della dipendenza alcolica, Danny trascorre le sue indolenti giornate
cercando il modo di procurarsi i soldi per bere, con strategie sempre più
ardite e pericolose. Il baratro è a un passo ma l’amata Helen è sempre lì,
pronta a soccorrerlo. Tratto da un romanzo di Charles Jackson, è il film più
espressionista di Wilder, possente dramma sul tema dell'alcolismo con toni cupi
da noir, ambientato in una New York da incubo allucinato. Geniale l’idea del
regista di rappresentare il vizio del bere, storica piaga sociale della società
americana, come un fatto “privato”, un triste spettacolo in “solitario” di un
uomo allo sfacelo, sprofondato in una spirale di perdizione senza uscita apparente.
Questo viaggio all’inferno (di andata e ritorno) è un ritratto di dannazione di
solenne spessore tragico, emotivamente instabile come il suo protagonista.
Senza retorica moralistica o sentimentalismi edificanti (finale a parte),
l’autore mette in scena con austero rigore, ma non senza partecipazione
pietosa, una deriva autodistruttiva tanto folle quanto angosciante, un cupio dissolvi di profondo sgomento
etico per la perdita di ogni barlume di umano decoro. Famosissima la scena,
agghiacciante, dell’incubo alcolico di Berman, con topi, scarafaggi e
pipistrelli che fuoriescono dalla parete; è una delle sequenze più forti del
cinema di Wilder, che enfatizza visivamente la denuncia sociale alla base
dell’opera, per indurre il massimo shock, con conseguente scossone morale negli
spettatori, bevitori e non. Il regista aveva intenzione di rendere anche
omosessuale il suo tragico protagonista, ma la produzione si oppose
decisamente, avendo la meglio, ritenendo la cosa troppo “sconveniente” per i
tabù dell’epoca. Il finale troppo lieto, e quindi poco credibile, appare
stonato, frettoloso e superficiale rispetto al tono crudo dell’opera, ma non
basta a sminuirne l’alto valore complessivo. Fu, probabilmente, il prezzo da
pagare, per l’ancor giovane regista, sull’altare del politicamente corretto
hollywoodiano. Vinse quattro Oscar “pesanti”: miglior film, regia,
sceneggiatura e Ray Milland straordinario protagonista e venne premiato al
Festival di Cannes con la Palma
d’Oro. Andrebbe mostrato, ancor’oggi, come deterrente ai sostenitori del
“bicchierino in più”.
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