Tre fratelli di colore, Hugh, Ben e
Leila, si scontrano con un contesto sociale mediocre e con la frustrazione
derivata dalla difficoltà di realizzare le proprie velleità in campo artistico.
Leila ha una relazione con un bianco da cui ricava soltanto umiliazioni, Ben
deve fare i conti con i pregiudizi razziali del suo giro di conoscenze, Hugh,
che è un bravo cantante, sarà l’unico a sapersi ritagliare uno scopo
gratificante nella società. Il regista di culto John Cassavetes è il padre del
cinema indipendente americano e questo suo folgorante esordio è l’affascinante
manifesto artistico del così detto “cinema verità”, a metà strada tra film e
documentario. Ambientato a New York negli anni della “Beat generation”, affronta il tema scottante dell’integrazione
razziale, con una modalità ed una lucidità che lasciarono spiazzati pubblico e
critica, rivelando subito il talento del giovane regista newyorkese come eccellenza
della cinematografia d’avanguardia. Il film fu girato due volte da Cassavetes,
nel ’57 e nel ’59, ed egli preferì la seconda versione, scegliendola per la
distribuzione in sala. La prima, da tutti ritenuta perduta, è stata ritrovata,
casualmente, nel 2004, da uno studioso del regista che non l’ha mai resa
interamente pubblica. La forza sovversiva di questo film è nello stile, che
sceglie un realismo formale senza mezzi termini: girato con camera a mano, con
dialoghi e sequenze spesso improvvisate, senza una vera e propria trama o una
sceneggiatura nel senso classico del temine, con una colonna sonora jazz firmata
da Charles Mingus ed un’atmosfera che fotografa perfettamente lo spirito dei
tempi, restituendocene tutta la potenza in forma di documento storico. Appartiene
allo stesso movimento culturale, fortemente innovatore, che, in Francia, darà
origine alla Nouvelle Vague e molti
lo hanno, giustamente, paragonato ad una suite jazzistica, per la capacità di
creare arte, verità e vibrazioni con la forza dell’improvvisazione. La messa in
scena depotenziata, priva di vigore drammatico, in nome dell’esigenza di
assoluta spontaneità, e la sua struttura irregolare, ne fanno un prodotto
ostico, indigesto al pubblico mainstream,
ma di enorme spessore culturale come simbolo di un’epoca di rinnovamento
ideologico e sociale. L’immersione garbata nei flussi di vita dei tre
protagonisti consente di arrivare al tema portante del film, la questione
razziale, attraverso percorsi differenti ma convergenti, in cui l’impianto non
“a tesi” è garantito dalla coralità dei punti di vista. Emblematica la scelta
dei tre protagonisti, tutti di colore ma con tonalità differenti di nero, ad
esempio Leila è particolarmente “chiara”, a testimoniare l’assurdità di una
classificazione basata sul solo colore della pelle, che è di arduo discernimento
già solo a livello macroscopico. L’autore gioca abilmente su questo aspetto di
indeterminazione proprio in relazione al personaggio di Leila, che molti
scambiano per bianca ma che viene vista come “nera” quando sta insieme ai
fratelli. Altrettanto emblematico il contrasto, perfettamente evidenziato dal
regista, tra una società mentalmente aperta ed affamata di nuovi modelli
culturali, come quella della “Beat
generation”, e la sua rigida chiusura di fronte alle differenze etniche,
retaggio di un atavico pregiudizio che nasce dall’ignoranza. Il modello
concettuale alla base dell’opera, e di tutto il cinema di Cassavetes, è che la
vita non sia rappresentabile con uno schema statico, ma solo tramite un libero fluire
di immagini in divenire, un continuo “work
in progress” di cui non è mai chiaro il percorso. A questa esigenza
rispondono tutti i suoi canoni stilistici che, in quest’opera prima, trovano un
riscontro di incredibile risalto espressivo. Le ombre evocate dal titolo sono
quelle di una generazione che ambisce a crescere, ma non riesce ancora a
trovare una sua chiara identità. Più che un film bello è un film storico,
fondamentale, discriminante.
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