domenica 4 gennaio 2015

Satantango (Sátántangó, 1994) di Béla Tarr

In una fattoria collettiva ungherese, ai tempi del comunismo, i pochi abitanti rimasti sono in preda al degrado e alla sfiducia, abbrutiti dall’indigenza, dal vizio dell’alcol e dalla mancanza di prospettive per una vita decorosa. Ma, un giorno, si sparge la voce che il carismatico Irimias, leader indiscusso della comunità dato per disperso, sta per tornare in paese insieme al suo aiutante. Questi chiederà ai suoi compaesani tutti i loro risparmi in cambio della promessa di un lavoro migliore e di condizioni di vita più dignitose, lontano dal fango, dalla sporcizia e dalla puzza del letame. Ma si tratta di un perfido inganno di cui è complice anche la polizia locale. Memorabile epopea visiva che lascia ammirati e annichiliti per durata (ben 7 ore e 20 minuti), potenza espressiva, realismo, profondità simbolica, rigore stilistico, analisi critica e lucidità della denuncia storica. Sospeso tra lirismo ed ermetismo, poesia e perdizione, Angelopoulos e Tarkovski, quest’opera capitale del grande Béla Tarr, maestro del cinema ungherese, è una tragedia storica di metafisica astrazione e di finissima suggestione visiva, che racconta, in modo totalizzante, la vita, quella vera, senza abbellimenti e senza sconti, includendo tutto: il dolore, la sporcizia, la miseria, la noia. Pur descrivendo, impietosamente, il crollo dell’utopia collettivistica dei regimi comunisti filo sovietici, è ambientato in un “non luogo” e in un “non tempo” di ipnotica rarefazione, un’astrazione visionaria che intende fornire all’opera un’aura solenne e universale, elevandola a tragedia esistenziale sulle illusioni umane, sulla malvagità del prossimo, sull’indifferenza della natura e sulla crudeltà della morte. La struttura della pellicola, come suggerito dal titolo, è ispirata al tango, ovvero al suo tipico movimento: infatti l’opera è suddivisa in 12 capitoli, in cui domina l’utilizzo esasperato del piano sequenza per favorire l’immersione realistica dello spettatore, con 6 di questi che vanno cronologicamente in avanti e 6 che vanno all’indietro in un’oscillazione di fervida altezza creativa che si contrappone all’inerzia ferale dei reietti abitanti del villaggio rurale. Ma l’intera pellicola è un fertile incontro tra opposti: il nulla e l’assoluto, il bene e il male, l’utopia e la concretezza, la speranza e la disperazione, la fiaba e l’incubo, in un moderno colosso artistico che può competere con le grandi  opere omnie del passato che hanno fatto la storia del cinema. Angoscianti e bellissime le ambientazioni cupe, impaginate da una meravigliosa fotografia in un bianco e nero spettrale, della puszta ungherese fangosa e inseminata, perennemente spazzata dalla pioggia e dal vento. E’ indubbio che si tratta di un film difficile, impegnativo, ermetico e di grande onere intellettuale, già solo per la sua incredibile durata che spaventerebbe anche il cinefilo più incallito e preparato. Ma la visione ripaga totalmente lo “sforzo” sostenuto, regalando un’esperienza indimenticabile, assoluta e di memorabile intensità, una sorta di Apocalisse dei sensi di magistrale perfezione estetica che ci mette a confronto con la Storia e con l’Uomo in una maniera che ha pochi eguali. Tra le tante scene fenomenali è impossibile non citare il piano sequenza d’apertura, con la macchina da presa che si muove di fianco alle mucche e ci offre la prospettiva dello spazio dell’azione o quella, lunghissima e ipnotica, del ballo contadino, con l’alcol che scorre a fiumi, la cui ridondanza formale intende “ubriacare” anche lo spettatore massimizzando la compenetrazione empatica. Mai distribuito in Italia (a parte il solito provvidenziale "Fuori Orario" di Ghezzi),  è reperibile, dal 2012, in un’eccellente versione DVD in lingua originale, ungherese, con sottotitoli in italiano.

Voto:
voto: 5/5

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