Sandy Bates è un regista
comico in crisi esistenziale ed artistica. Sconfortato e depresso, è costretto
a partecipare, durante un weekend, a una rassegna delle sue vecchie pellicole,
che si tiene allo Stardust Hotel nel New Jersey. Qui dovrà confrontarsi con
produttori agguerriti che vogliono rendere il suo ultimo film più commerciale,
con l’invadenza dei fans che rimpiangono la comicità dei suoi primi lavori e
con tre donne sentimentalmente importanti della sua vita. Dopo i grandi
successi degli anni ’70, Woody Allen decide di girare il suo personale 8½,
per omaggiare uno dei suoi registi preferiti (Fellini), uno dei massimi
capolavori della storia del cinema e per tracciare un bilancio, in forma onirico
grottesca, della sua vita e della sua carriera, tra ironia beffarda e disagio
interiore. Il risultato è un’opera ambiziosa e affascinante, a metà strada tra
il diario interiore e l’autoanalisi emotiva, rappresentata con un flusso libero,
e disordinato, di immagini simboliche. Un’opera forte di alcune sequenze
visionarie di notevole suggestione, di uno stile elegante che riluce nella
bella fotografia in bianco e nero e di almeno un paio di momenti irresistibili,
nel mettere in scena il tormentato dialogo del protagonista con i suoi “fantasmi”
personali, che lo conducono sull’orlo della crisi di identità. Divise la
critica in modo netto alla sua uscita, tra chi lo osannava (pochi) e chi lo
fischiava (la maggioranza), per il suo essere profondamente diverso, e ben più
complesso, rispetto alla filmografia dell’autore newyorkese. Le critiche
maggiori furono rivolte all’andamento caotico della pellicola, frutto del
disordine interiore di Bates, alla sua pretenziosità ed al presunto ermetismo
di fondo. Anche la sua graffiante satira nei confronti del pubblico e dei
critici, che per me è un valore aggiunto, non aiutò l’indulgenza del giudizio
di chi si sentì “colpito”. Viene, pertanto, solitamente relegato tra i flop
dell’autore. Ma, invece, i reali punti deboli di questa retrospettiva interiore
risiedono in due aspetti essenziali: l’evidente debito calligrafico con il
capolavoro felliniano, talmente grande da risultare inavvicinabile, e da
mettere, inevitabilmente, in ombra ogni tentativo di “imitazione”. E poi un’eccessiva
auto indulgenza estetica, al limite del manierismo, non sempre sostenuta da una
pari ispirazione narrativa, con conseguente sensazione di “snobismo”
intellettuale. Ma la classe di Allen è indubbia ed ha il suo peso anche in
quest’opera atipica, non del tutto compiuta, ma di enorme fascino e di fervida
capacità inventiva. Un’opera da molti dimenticata, ma che è da rivalutare. Tra
gli altri elementi da citare: l’incisivo prologo surreale (il sogno ambientato
sul treno), la notevole interpretazione di una splendida Charlotte Rampling e
la fugace apparizione, nel sogno iniziale, di una giovanissima Sharon Stone, al
suo esordio cinematografico.
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