Fine del 1800, in un cascinale
della “bassa” bergamasca, quattro famiglie contadine vivono la loro
quotidianità, tra il duro lavoro dei campi, l’allevamento degli animali, le
gioie e i dolori di un’esistenza semplice. Il forte legame tra i diversi nuclei
familiari li porta a condividere ogni cosa, nel bene e nel male. Quando il
piccolo Menek rompe uno zoccolo, suo padre Batistì taglia di nascosto un tronco
d’albero per costruirne uno nuovo. Ma il padrone lo scopre e caccia via Batistì
e la sua famiglia. Capolavoro di Olmi, che traspone in immagini le vecchie
storie contadine ascoltate dai suoi nonni, regalandoci una suggestiva epopea
degli umili, realistica, sincera, perfetta nella ricostruzione ambientale e
recitata da veri contadini del luogo, senza alcuna esperienza artistica. Con
una potente capacità di evocazione lirica, che guarda alle piccole cose per
elevarle in una dimensione “mitica” nella loro purezza ancestrale, il regista
ricostruisce con puntiglioso rigore la vita contadina dell’epoca, alternando
scene di ordinaria quotidianità a momenti di altissima poesia. La
rappresentazione dell’antico mondo rurale è appassionata, rigorosa, quasi priva
di elementi di critica sociale, perché intende restituirci, in solenne forma di
poema cinematografico, tutta la fierezza e la genuinità di quel mondo remoto.
Olmi ha la sensibilità di un poeta e l’approccio di un documentarista nel
realizzare quest’opera imponente, tra le più importanti in assoluto del cinema
italiano, che riattualizza i codici del movimento neorealista, con un occhio
all’estetica di autori come Angelopoulos. Da questo autentico confronto con le
nostre radici, raffigurato come un universo incontaminato, privo di coscienza
di lotta di classe, impregnato sia di credenze pagane sia di cattolicesimo
popolare, emergono dei protagonisti pregni di umanità, ora gretti ora solidali,
il cui credo è il legame assoluto con la terra e con la famiglia. Senza
ricorrere ad alcuna enfasi drammatica o indulgenza nel “romanzo”, il regista
lombardo ci offre un cinema limpido, a suo modo integralista per la reticenza
di approfondire risvolti politici o relazioni sessuali, ma con tanta anima. Tra
i tanti momenti di volo alto dell’opera, sono memorabili il viaggio in barca a
Milano dei due sposini e la semina sotto la prima nevicata, antico rituale
tramandato da tempi remoti. Nonostante i meriti ed il largo consenso della
pellicola ci fu chi, negli ambienti di sinistra, accusò il regista di utopia
reazionaria per lo scarso nerbo polemico nei confronti dei “padroni”. L’affascinante
colonna sonora, profondamente evocativa nel suo tono sacrale, è costituita da
brani di Bach, eseguiti all’organo, e da canti popolari contadini bergamaschi.
Esistono due versioni della pellicola: una in dialetto bergamasco con
sottotitoli (da preferire) ed una doppiata in lingua italiana. Il film, che
ebbe grande successo di pubblico e critica, fu premiato con la Palma d’Oro al Festival di
Cannes.
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