La vita di una famiglia dell’alta
borghesia milanese, composta da Paolo, industriale, sua moglie Lucia, i figli
studenti, Pietro e Odetta, e la domestica Emilia, viene sconvolta dall’arrivo
in casa di un misterioso ospite: un giovane enigmatico di bell’aspetto, che
parla pochissimo e trascorre il tempo leggendo Rimbaud. Tutti i cinque membri
della famiglia risulteranno attratti dall’enigmatico ospite e tutti, a turno,
avranno con lui rapporti sessuali, fino a che, un giorno, questi andrà via
improvvisamente così come è arrivato. La famiglia non sarà più la stessa e, in
breve, sarà disgregata, perché ciascuno dei suoi membri è stato radicalmente
cambiato dall’esperienza vissuta: Odette diventa catatonica e sarà chiusa in un
istituto di igiene mentale, Pietro lascia la casa per darsi alla pittura, ma
resterà invischiato nella sua mancanza di talento, Lucia si abbandona ad un
erotismo patologico, concedendosi a tutti, Paolo cede la sua fabbrica agli
operai, si denuda degli abiti alla Stazione Centrale di Milano e finisce a
vagare, nudo e disperato, in un arido deserto. La serva Emilia ritorna alla
casa paterna, in un piccolo borgo rurale, dove viene accolta come una santa.
Qui sceglie una vita semplice, cade in un’estasi ascetica e levita nell’aria,
compiendo un miracolo. Capolavoro controverso di Pasolini, che, tra Marx e
Freud, sacro e profano, misticismo e lussuria, rappresenta una delle sue opere
più importanti, originali e geniali nell’utilizzo di un ideologismo dogmatico,
il teorema del titolo, al servizio di una disamina arguta sulla natura umana e
sulla sua incapacità di trovare Dio. Attaccato duramente dalla censura, con
accuse di oscenità, e dalla Chiesa, per l’accostamento tra il sacro ed il sesso
(anche omosessuale), venne sequestrato dalla Procura romana e ritirato dalle
sale. Ma la vicenda giudiziaria, a cui il grande regista poeta non era di certo
nuovo, si concluse con un nulla di fatto e con il pieno riconoscimento dello
status artistico dell’opera, annullando il provvedimento restrittivo. Sotto la
superficiale patina blasfema e libertina, si nasconde una delle opere più
dense, stupefacenti, profonde e coraggiose del cinema italiano, in cui
l’evidente provocazione vuol essere, come sempre in Pasolini, uno scossone
morale per indurre una vigile riflessione sui reali temi dell’opera. Va anche
ricordato che la predisposizione, quasi naturale, del regista allo “scandalo”,
va letta sempre come forma catartica di ribellione, derivata dall’atavico
conflitto interiore tra la sua elevata vocazione poetico spirituale ed i
“tormenti” della carne, ovvero la sua omosessualità da tenere celata e da
vivere come un “vizio” nascosto, per colpa del moralismo italiano. Tuttavia
questa vena dissacratoria, per quanto sincera e connessa all’intima personalità
dell’autore, non è mai volgare, mai strumentale, mai boriosa, ma, piuttosto,
colta, lucida e finalizzata alla profondità dell’analisi. La spiegazione del
“teorema” dimostrato in questa pellicola è alquanto ovvia, per l’osservatore
non prevenuto: il film ha un’intensa valenza religiosa, sotto la coltre
“oscena”, ed è una metafora scioccante dell’inadeguatezza dell’uomo (borghese)
di riconoscere, accettare e vivere il Sacro. La sola che vi riesce è la serva
Emilia, perché semplice, pura, appartenente a quei “bassi” ceti (contadini o
sottoproletari), tanto cari all’autore e non condizionati dalle sovrastrutture
ingombranti del conformismo della società consumistica. La famiglia milanese
rappresenta la borghesia, ovvero quell’Italia abbiente, reazionaria,
imbalsamata ed ideologicamente rigida, che ama crogiolarsi sulla vanitosa auto
perpetuazione di sé stessa, celando la propria mancanza di senso e d’identità
sotto una facciata di buone maniere e rituali mondani. Concetti già
egregiamente trattati da Buñuel in quasi tutta la sua filmografia, e con la
massima valenza polemica nel suo capolavoro: Il
fascino discreto della borghesia. L’ospite è una chiara allegoria del
divino che viene, inaspettatamente, tra noi, non a caso annunciato da un
telegramma portato da un postino (Ninetto Davoli) dal nome emblematico di
Angelo. L’ospite irrompe, all’improvviso, nella vuota ritualità di un
microcosmo borghese, benestante quanto arido, e si dona a tutti indistintamente
in maniera totale. Qui il sesso diventa metafora di offerta, condivisione,
elargizione suprema, come solo il divino può fare. Eros e sacro in un’ardita,
quanto ingegnosa, commistione emblematica. Tutti i componenti del nucleo
familiare sono irrimediabilmente attratti dall’ospite misterioso, chi perché ne
avverte l’aura luminosa, chi perché lo vede diverso, estraneo ed indifferente
al proprio mondo di certezze prefabbricate e, quindi, ne risulta spiazzato. Ma
il rapporto simbiotico che si instaura, l’ospite “possiede” sessualmente tutti
ma si fa “possedere” a sua volta, determina un traumatico cambiamento in
ciascuno dei membri della famiglia, perché ne svela la crisi profonda, la
mancanza di senso, la debolezza dei propri dogmi, la perdita di identità civile
e sociale. E, quando l’ospite andrà via per sempre, sarà il caos: la sua
assenza sarà, per ciascuno, lo specchio impietoso della propria inadeguatezza,
del proprio fallimento, la dolorosa presa di coscienza. Egli dirà ad Emilia,
simbolo degli umili e dei semplici, prima di partire: “Tu sarai l’unica a sapere, quando sarò partito, che non tornerò mai
più, e mi cercherai dove dovrai cercarmi”, e lei sarà la sola a pentirsi
realmente, salvandosi dal disfacimento ed abbracciando il divino, in un
percorso di mistica redenzione al di sopra delle debolezze umane. La sua ascesi
viene contrapposta, beffardamente, da Pasolini all’opposto percorso, egoistico,
tenuto dagli altri, prigionieri della propria individualità e incapaci di
donarsi realmente agli altri. Per tutti loro ci sarà la sconfitta,
l’umiliazione, la malattia, il deserto. La resa incondizionata di fronte alla
propria incapacità di capire il divino, compenetrandosi con esso, è la solenne
ed irrevocabile dimostrazione del teorema pasoliniano. L’autore ha spiegato
benissimo tutto questo in un’intervista ad un giornale francese, dicendo: “Dio
è lo scandalo. Il Cristo, se tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai suoi
tempi e lo sarebbe oggi. Il mio sconosciuto – interpretato da Terence Stamp,
esplicitato dalla presenza della sua bellezza – non è Gesù inserito in un
contesto attuale, non è neppure Eros identificato con Gesù; è il messaggero del
Dio impietoso, di Jehovah che, attraverso un segno concreto, una presenza
misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. È il Dio che distrugge
la buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al riparo della quale vivono o
piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi”.
La famosa sequenza finale, Paolo che vaga nudo nel deserto e urla disperato,
sulle note del Requiem di Mozart, è tra le più potenti del cinema di Pasolini: l’impotenza
umana di fronte al divino, l’incapacità borghese di capire il sacro e qualunque
cosa che sia altro da sé, con conseguente smarrimento ideologico. D’altra parte
lo stesso Pasolini ha sempre affermato che l’unica possibilità di rivoluzione
consiste proprio nel sovvertimento della logica che sorregge l’ideologia della
società borghese o, come in questo caso, la totale assenza di essa. Nel grande
cast ricordiamo Silvana Mangano (Lucia, la madre), Terence Stamp (l'ospite),
Massimo Girotti (Paolo, il padre) e la “fedelissima” Laura Betti (Emilia, la
domestica).
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