martedì 27 gennaio 2015

Germania, anno zero (Germania, anno zero, 1948) di Roberto Rossellini

Nella Berlino del 1946, devastata dai bombardamenti, il piccolo Edmund, dodicenne, è costretto a lottare per sopravvivere con un padre invalido, una sorella prostituta ed un fratello ex nazista che vive nascosto perché ricercato dagli alleati. L’unico con cui Edmund riesce a parlare è un suo vecchio maestro, dal passato oscuro nel regime hitleriano, che gli inculca deliranti teorie secondo cui i deboli, come suo padre, vanno soppressi. Il bambino, plagiato dal carisma del vecchio nazista, avvelena il genitore, ma poi, vinto dal rimorso, si getta nel vuoto da un campanile diroccato. Terzo film di Rossellini dedicato alla guerra, dopo Roma città aperta e Paisà, e nuovo capolavoro assoluto del neorealismo italiano, dedicato alla memoria del figlio, Romano, prematuramente scomparso a soli 9 anni. E’ il film che consacrò Rossellini sulla ribalta internazionale, in particolare negli Stati Uniti e in Francia, come grande maestro del cinema mondiale. Con una oggettività visiva scioccante ed un pessimismo tragico inevitabile, rispetto ad una catastrofe di proporzioni spaventose come la Seconda Guerra Mondiale, l’autore va ben oltre i confini del neorealismo italiano, allargando gli orizzonti e gli intenti in una cinica riflessione sull’uomo e sulla storia, raggiungendo così i vertici artistici assoluti del suo cinema e del cinema in generale, di cui quest’opera rappresenta uno dei massimi capolavori. La tragica scena finale del piccolo Edmund, che vaga da solo, in silenzio e con gli occhi colmi di disperazione, tra le macerie di una Berlino spettrale, è tra le sequenze più alte, potenti e struggenti della storia del cinema. Il piccolo protagonista diventa il simbolo estremo di un’infanzia stuprata, rubata, calpestata dalla follia nazista, i cui germi malefici continuano a covare sotto le ceneri di una nazione mai doma, pronti a far nuovi proseliti e nuove vittime innocenti. Edmund è il simbolo vivente della sconfitta tedesca, ma anche della sconfitta dell’uomo perché, in un conflitto tanto sanguinoso e di cotanta barbarie, non possono esistere veri vincitori. Senza alcuna forma di sentimentalismo o di moralismo, Rossellini ci immerge in questo mondo in rovina, dove di fianco alla vergogna per gli orrori commessi ed al dolore per la disfatta, strisciano ancora le radici nascoste di un odio e di un male troppo grande, troppo radicato e troppo profondo per poter essere estirpato da una resa, da un trattato o da una pioggia di bombe. Con un rigore drammaturgico lucido e possente, e con un formalismo stilistico addirittura moderno rispetto agli anni ’40, il regista ci conduce verso il tragico finale, sconvolgente, ma necessario per rappresentare il senso di colpa di una nazione che ha ceduto, inopinatamente, alla tentazione del male assoluto, che però, come viene chiaramente mostrato, non apparteneva al solo Hitler ed è ben lungi dall’essere estirpato. Il male portato dal nazismo ha infettato la coscienza della Germania e lo spirito del suo popolo, in un modo così completo e aberrante che l’unica possibile catarsi è la morte. In questo solenne simbolismo tragico, quasi di connotazione biblica, risiede il senso intimo del film e, quindi, l’inevitabile finale. Ma lo sguardo del regista è pietoso nei confronti del suo piccolo protagonista, che è sì colpevole ma anche innocente, in quanto bambino, e, pur non salvandolo dalla simbolica apocalisse, ci restituisce l’emozione della sua intensa pietà nel commovente finale, in cui la forza assoluta delle immagini tutto pervade. Gli scenari di devastazione e di degrado urbano della Berlino bombardata, diventano l’allegoria del percorso interiore di Edmund (e, quindi, di una nazione), lo specchio fedele delle ferite dell’anima, la cui innocenza è stata spezzata da un’ideologia perversa. Anche lo stile dell’autore arriva, in questo film, ad un punto definitivo forse mai più espresso con altrettanta grandezza: i movimenti di macchina, la dilatazione dei fotogrammi verso l’orizzonte, il montaggio, il naturalismo e la recitazione, vengono sublimati in un’atmosfera da incubo, di straordinaria sospensione metaforica, come l’assordante silenzio che segue alla più grande tragedia storica del ‘900.

Voto:
voto: 5+/5

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