Nella Berlino del 1946, devastata dai
bombardamenti, il piccolo Edmund, dodicenne, è costretto a lottare per
sopravvivere con un padre invalido, una sorella prostituta ed un fratello ex
nazista che vive nascosto perché ricercato dagli alleati. L’unico con cui
Edmund riesce a parlare è un suo vecchio maestro, dal passato oscuro nel regime
hitleriano, che gli inculca deliranti teorie secondo cui i deboli, come suo
padre, vanno soppressi. Il bambino, plagiato dal carisma del vecchio nazista,
avvelena il genitore, ma poi, vinto dal rimorso, si getta nel vuoto da un
campanile diroccato. Terzo film di Rossellini dedicato alla guerra, dopo Roma città aperta e Paisà, e nuovo
capolavoro assoluto del neorealismo italiano, dedicato alla memoria del figlio,
Romano, prematuramente scomparso a soli 9 anni. E’ il film che consacrò Rossellini
sulla ribalta internazionale, in particolare negli Stati Uniti e in Francia,
come grande maestro del cinema mondiale. Con una oggettività visiva scioccante
ed un pessimismo tragico inevitabile, rispetto ad una catastrofe di proporzioni
spaventose come la
Seconda Guerra Mondiale, l’autore va ben oltre i confini del
neorealismo italiano, allargando gli orizzonti e gli intenti in una cinica
riflessione sull’uomo e sulla storia, raggiungendo così i vertici artistici
assoluti del suo cinema e del cinema in generale, di cui quest’opera
rappresenta uno dei massimi capolavori. La tragica scena finale del piccolo
Edmund, che vaga da solo, in silenzio e con gli occhi colmi di disperazione,
tra le macerie di una Berlino spettrale, è tra le sequenze più alte, potenti e
struggenti della storia del cinema. Il piccolo protagonista diventa il simbolo
estremo di un’infanzia stuprata, rubata, calpestata dalla follia nazista, i cui
germi malefici continuano a covare sotto le ceneri di una nazione mai doma,
pronti a far nuovi proseliti e nuove vittime innocenti. Edmund è il simbolo vivente
della sconfitta tedesca, ma anche della sconfitta dell’uomo perché, in un
conflitto tanto sanguinoso e di cotanta barbarie, non possono esistere veri
vincitori. Senza alcuna forma di sentimentalismo o di moralismo, Rossellini ci
immerge in questo mondo in rovina, dove di fianco alla vergogna per gli orrori
commessi ed al dolore per la disfatta, strisciano ancora le radici nascoste di
un odio e di un male troppo grande, troppo radicato e troppo profondo per poter
essere estirpato da una resa, da un trattato o da una pioggia di bombe. Con un
rigore drammaturgico lucido e possente, e con un formalismo stilistico
addirittura moderno rispetto agli anni ’40, il regista ci conduce verso il tragico
finale, sconvolgente, ma necessario per rappresentare il senso di colpa di una
nazione che ha ceduto, inopinatamente, alla tentazione del male assoluto, che
però, come viene chiaramente mostrato, non apparteneva al solo Hitler ed è ben
lungi dall’essere estirpato. Il male portato dal nazismo ha infettato la
coscienza della Germania e lo spirito del suo popolo, in un modo così completo
e aberrante che l’unica possibile catarsi è la morte. In questo solenne
simbolismo tragico, quasi di connotazione biblica, risiede il senso intimo del
film e, quindi, l’inevitabile finale. Ma lo sguardo del regista è pietoso nei
confronti del suo piccolo protagonista, che è sì colpevole ma anche innocente,
in quanto bambino, e, pur non salvandolo dalla simbolica apocalisse, ci restituisce
l’emozione della sua intensa pietà nel commovente finale, in cui la forza
assoluta delle immagini tutto pervade. Gli scenari di devastazione e di degrado
urbano della Berlino bombardata, diventano l’allegoria del percorso interiore
di Edmund (e, quindi, di una nazione), lo specchio fedele delle ferite
dell’anima, la cui innocenza è stata spezzata da un’ideologia perversa. Anche
lo stile dell’autore arriva, in questo film, ad un punto definitivo forse mai
più espresso con altrettanta grandezza: i movimenti di macchina, la dilatazione
dei fotogrammi verso l’orizzonte, il montaggio, il naturalismo e la recitazione,
vengono sublimati in un’atmosfera da incubo, di straordinaria sospensione
metaforica, come l’assordante silenzio che segue alla più grande tragedia
storica del ‘900.
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