Patrick Bateman è l’immagine
del successo: broker di Wall Street, abiti firmati, cura maniacale del proprio
aspetto, appartamento lussuoso a Manhattan, vita mondana nei locali più
esclusivi, accessori di lusso, look impeccabile, belle donne. Ma ha un lato
oscuro di cui nessuno sospetta l’esistenza: la notte diventa uno spietato
serial killer che frequenta i bassifondi, fa uso smodato di droga e pornografia,
sgozza barboni nei vicoli, tortura ed uccide nei modi più brutali giovani
prostitute dopo aver fatto sesso con loro. Non esiste alcun movente per i suoi
crimini, ma solo il puro diletto nel commetterli: il piacere dell’eccesso, il
culto dell’edonismo e del possesso. A ciò si aggiunge il morboso narcisismo di
ottenere il medesimo successo personale in entrambe le due “attività”: quella
pubblica, di giorno, e quella psicopatica, di notte. Ma, un giorno, Bateman incontra
Paul Allen, una sorta di “sosia”, che fa il suo stesso lavoro, si veste come
lui e cerca di replicarne aspetto e abitudini. La sua mente disturbata sarà
messa in crisi e gli eventi prenderanno una piega che sfugge al suo ossessivo
controllo. Dall’esplosivo materiale dell’omonimo romanzo “maledetto” di Bret
Easton Ellis, divenuto famoso per le inenarrabili scene di violenza e crudeltà
in esso contenute, la canadese Mary Harron ha tratto un adattamento algido,
patinato ma denso di personalità: un thriller oscuro che sceglie, saggiamente,
di mantenere fuori fuoco le atrocità sanguinarie del libro, puntando,
piuttosto, sulle atmosfere, sullo scandaglio surreale della personalità
disturbata, ma affascinante, del protagonista, egregiamente interpretato da Christian
Bale. Intriso di sagace ironia nera, che dona al tutto un irriverente tono
grottesco che smussa i contenuti splatter, il film preferisce suggerire, invece
di mostrare, e rappresenta la mente disturbata del protagonista come un mondo
onirico, stravagante, di sinistra malia, nel quale veniamo introdotti
attraverso la sua verbosa derisione della “normalità”. Pur perdendo uno dei
cardini del romanzo, il parallelismo malato tra la cura maniacale con cui Bateman
“tratta”, indifferentemente allo stesso modo, la sua igiene personale o le sue
vittime, non ne modifica il senso principale, ne mantiene il fascino oscuro e
ne sublima la ferocia esplicita in una caustica critica allo yuppismo degli
anni ’80, con tutto il suo corredo di rampantismo, materialismo ed egocentrismo
smodato. Contiene almeno due momenti memorabili: la lunga filippica di Bateman
sulla musica degli 80’s e la scena surreale, ma simbolicamente potente, dei
biglietti da visita tutti uguali, metafora della perdita di identità degli yuppies, in nome di un modello
stereotipato imposto dal conformismo di quel mondo vorace. Il finale, ambiguo
ed aperto, che è un valore aggiunto, contiene il “messaggio” del film:
l’egocentrismo smodato conduce al distacco dal reale, e si resta prigionieri in
un labirinto di specchi senza più capacità di distinguere la realtà della
fantasia. Con un ingegnoso espediente, in omaggio ai fans del romanzo, la
regista ha deciso di citare le terribili scene di tortura presenti in
esso nella telefonata in cui Bateman confessa le sue malefatte all’avvocato:
tutte le cose che egli racconta, e che appaiono disegnate sul suo quaderno, non
sono presenti nel film, ma sono prese, pari pari, dalla prosa di Ellis. In
definitiva quest’opera, pur nei limiti di un prodotto “di genere”,
si mantiene su un buon livello qualitativo, ben sopra la media dei suoi simili.
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