Storia vera di Chris
Kyle, giovanotto texano senza troppe prospettive che sposa la bella Taya, si
arruola nei Navy Seal e parte per la seconda guerra in Iraq dove, in mille
giorni e quattro turni, diventa una leggenda in patria come infallibile cecchino,
abbattendo almeno 160 uomini. Tornato a casa, non riesce più a staccarsi da
quella guerra che gli è entrata dentro per sempre e finirà ucciso, tragicamente
e beffardamente, da un reduce mentalmente disturbato che stava cercando di
aiutare. Dalla biografia di Chris Kyle, il cecchino più letale della storia
militare americana, Eastwood ha tratto un film sobrio, tecnicamente
ineccepibile, ma di ardua decifrazione perché, vista la portata scottante del
tema trattato, difetta in personalità e non si schiera mai in modo chiaro,
finendo per avere un’identità ambigua. Difficile, infatti, rispondere alla
domanda su cosa sia realmente quest’ultimo opus
del grande regista californiano. Non è un’agiografia, perché il ritratto
offerto di Kyle è quello di un uomo saldo e trasparente, dedito alla sua
missione fino all’ossessione, ma anche carico di lati oscuri nella sua
incapacità di relazionarsi con il mondo “normale”, di dedicarsi realmente alla
moglie e ai figli, perennemente calato in una dimensione di guerra anche quando
è a casa, sempre all’erta, coi nervi tesi e la pressione a mille. L’autore sceglie, però, una matrice
“romantica” per la dedizione di Kyle in difesa del prossimo, dedizione che lo
ha reso una “leggenda” sui campi di battaglia iracheni, ovvero quegli
insegnamenti paterni, presentati con un pizzico di retorica nel prologo, che
gli sono entrati nel profondo, instradando la sua vita come un “pastore di
gregge”, un difensore dei deboli, a cominciare da quel fratello minore che non ne
condivide la granitica saldezza. E non si può dire che questo sia un film
antimilitarista perché, sebbene dispensi senza filtri gli orrori della guerra
ed i suoi effetti devastanti quanto incancellabili sulla mente umana, mostra,
con altrettanta enfasi dogmatica, la devozione assoluta di un professionistico
apparato offensivo, i corpi speciali USA, alla propria missione di morte,
all’annullamento implacabile di altrui vite in nome di una causa. Ma non è
neanche corretto parlare, come hanno fatto alcuni critici italiani, di film
“fascista” o “guerrafondaio”, perché il suo innegabile “nazionalismo” a senso
unico va letto nell’ottica, parziale, del protagonista; infatti tutto ciò che
vediamo ci viene presentato attraverso la totalizzante prospettiva di Kyle. Eastwood
non si schiera apertamente, non entra mai in merito alla legittimità di
quell’intervento armato, né si addentra in discorsi politici o in polemiche
contro il governo. Sceglie, piuttosto, di non contraddire i forti ideali del
protagonista, le cui scelte assolute, condivisibili o meno, determinano il tono
ed il senso della pellicola. Sarebbe allora corretto parlare di un’analisi
lucida, ma non sufficientemente problematica, dell’americano medio come
“prodotto” della sottocultura delle armi, dell’uso della forza,
dell’aggressività economica, dell’occhio per occhio e di quell’arroganza
interventistica, giustificata sotto l’egida di un’edificante retorica
patriottica, che molti tacciano di imperialismo. Ma, anche qui, il film ha
scarso nerbo e, preoccupato di non offendere la memoria di un eroe nazionale,
finisce per rimanere ignavo. E se le scene di guerra sono eccellenti per
realismo, brutalità e patos, salvo qualche spettacolarità gratuita da action movie a stelle e strisce, quelle
familiari sono stereotipate e spesso banali, per dialoghi e situazioni. Nel
cast bravo e credibile Bradley Cooper, donatosi anima e corpo al progetto, che si conferma talento in forte ascesa, mentre Sienna Miller appare
sottoutilizzata, relegata al ruolo “ornamentale” di controparte “dolce”, in
mezzo a tanto testosterone. In definitiva, è una pellicola dignitosa ma
innocua, al di sotto degli standard dell’autore, troppo rigida e schematica per risultare incisiva:
proprio come dividere l’umanità in pecore, lupi e pastori.
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