Napoli, inizio anni ’60:
Eduardo Nottola, consigliere comunale di destra e costruttore edile, utilizza
la politica per assicurarsi la gestione degli appalti principali in città, tra
cui un grande progetto edilizio finanziato da fondi statali. Ma i lavori di un
cantiere della sua impresa causano il crollo di un palazzo in un vicolo del
centro, provocando due morti e diversi feriti, tra cui un bambino che perde
l’uso delle gambe. Messo sotto inchiesta, viene abbandonato dal suo partito,
che teme uno scandalo su scala globale in vista delle imminenti elezioni. Ma il
viscido Nottola, abile trasformista politico, cambia schieramento, vince le
elezioni sotto la nuova “bandiera” e, tramite loschi giochi di potere, riesce
persino a farsi nominare assessore, dando così il via al suo megaprogetto
immobiliare, che cambierà per sempre il volto della città. Rosi ambienta nella
sua Napoli, da sempre fervida fonte d’ispirazione per il cinema e le arti in
genere, questo possente dramma di denuncia, a metà strada tra il thriller politico,
il documento storico e la critica sociale, tanto romanzato quanto verosimile.
Come recita la tagline della
pellicola: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica
invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Con la consueta capacità
critica, la lungimiranza dello sguardo, l’impegno civile e la veemente
indignazione morale, il grande regista napoletano traccia un amaro bilancio, in
perdita, dei primi anni del boom economico, con questa spietata apologia del
malcostume politico che intende denunciare, perentoriamente, le speculazioni
edilizie che hanno deturpato il panorama delle grandi città italiane, opprimendolo
sotto colate di cemento. La crescita demografica e il diffuso benessere
economico hanno innescato quel meccanismo perverso che, con la complicità di
politici corrotti e faccendieri conniventi, ha generato il triste ciclo della
corsa alla cementificazione selvaggia: con appalti truccati, tangenti,
appropriazione di denaro pubblico, crescita esponenziale dei cantieri,
urbanizzazione spudorata e indecorosa, per arricchire un manipolo di sciacalli
speculatori a danno della collettività. I meriti del film, storici, sociali, estetici
e “profetici”, sono indubbi ma, come al solito, fece arrabbiare parecchio la
classe politica, che lo accusò di populismo sovversivo, sebbene sia evidente
quanto sia stato perspicace nel prevedere tutto quello che oggi, purtroppo, è
tristemente noto. Rispetto allo straordinario predecessore, Salvatore Giuliano, questa nuova gemma
polemica dell’autore campano appare più aspra, più cinica, ma meno complessa e
meno geniale. Nel cast spiccano un istrionico Rod Steiger, tenuto saldamente a
freno dal regista, ed un luciferino Salvo Randone, figure sinistre quanto
emblematiche di un atavico malcostume tipicamente italiano che è, a tutt’oggi,
duro da estirpare, come un cancro sociale che si rigenera in continuazione.
Premiato al Festival di Venezia con il Leone d’Oro, è un’altra pietra miliare
nella filmografia di Rosi e nel cinema d’impegno civile italiano.
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