Amazzonia, inizi del ‘900: l’avventuriero
Brian Sweene Fitzgerald, meglio noto come “Fitzcarraldo”, grande appassionato
di opera lirica, ha il sogno di costruire un teatro a Iquitos, piccolo
villaggio peruviano sul Rio delle Amazzoni, per farvi esibire Enrico Caruso, il
più grande cantante del mondo, che, una volta, ha avuto l’onore di ascoltare
nel teatro dell’opera di Manaus. Follemente ossessionato dal progetto, viene
convinto dalla sua donna a buttarsi nella remunerativa raccolta del caucciù,
per poter così finanziare la costruzione del teatro. Ma, dopo aver comprato una
nave per raggiungere l’unico tratto di foresta ricco di caucciù ancora senza
proprietario, si rende conto di avere un ostacolo insormontabile: la zona
agognata si trova sul fiume Ucayali, in prossimità di violente rapide da cui
nessuno è mai tornato vivo. Ma l’uomo non si dà per vinto ed opta per un piano
follemente ambizioso: raggiungerà l’area evitando le rapide, facendo passare la
nave, trainata a mano dagli indigeni del luogo, sopra una collina, nel tratto
in cui l’Ucayali quasi “tocca” il Rio Pachitea, separati da un poggio boscoso.
“Chi sogna può muovere le montagne” è
la frase del film, perché descrive perfettamente l’impresa impossibile e
ambiziosa di un folle sognatore, un visionario idealista, che non si arrende
mai pur di raggiungere l’ambita meta. E, paradossalmente, questa frase si
adatta perfettamente al regista, il grande Werner Herzog, che, per girare
questo film, ha compiuto imprese al limite dell’umano, rendendo la lavorazione
di Fitzcarraldo una delle più
difficili, travagliate e pericolose della storia del cinema, facendo così
coincidere arte e vita, finzione e realtà. Fitzcarraldo
è la meravigliosa storia di un’ossessione, quella del protagonista,
mirabilmente interpretato dal solito Klaus Kinski, alter ego e nemesi del
regista, ma è anche un film che “filma” se stesso, in un gioco di scatole a
cinesi a due livelli, perché l’autore ebbe la medesima folle ossessione per
portarlo a termine. Durante la lunga lavorazione egli ha infatti dichiarato: “Se io abbandonassi questo progetto sarei un
uomo senza sogni, e non voglio vivere in quel modo. Vivo o muoio con questo
progetto”. I primi problemi si ebbero nel 1979, quando la troupe fu
costretta ad abbandonare il set, al confine tra Perù ed Ecuador, per guai con
gli indios locali, che li minacciarono di morte e distrussero le scenografie,
costringendoli a cercare altre location, con lo slittamento di quasi due anni.
Nel cast iniziale c’erano Jason Robards, nel ruolo di “Fitzcarraldo”, ed il
famoso cantante Mick Jagger, leader dei
Rolling Stones, come sua “spalla”. Ma, giunti ormai a metà delle riprese, Robards
si ammalò gravemente e Jagger, di conseguenza, rescisse il contratto. Herzog
decise allora di ricominciare daccapo, scegliendo Kinski come protagonista e
cancellando dalla trama il personaggio di Jagger. Per la famosa scena della
nave issata sulla montagna, il regista decise di girarla sul serio, senza
effetti speciali, con l’aiuto di un ingegnere brasiliano che progettò il
sistema di argani e tiranti che vediamo nel film. Ma il primo tentativo fallì
miseramente, perché la nave era troppo pesante e l’inclinazione del poggio
troppo eccessiva, quindi il battello, di oltre 300 tonnellate, scivolò
rovinosamente all’indietro nel fiume dopo aver percorso alcune decine di metri
(anche questa scena è finita nel film, per aumentare il realismo). Alla squadra
si unirono poi degli ingegneri peruviani che riuscirono nell’impresa di issare
il gigante di metallo su per la collina, passando da un fiume all’altro, ma si
ebbero presto nuovi problemi con la scena delle rapide, che costò diversi
feriti ed il blocco del natante, rimasto incagliato sulle rocce fino all’arrivo
della successiva stagione delle piogge. Ci vollero quasi quattro anni per
ultimare il film ed una serie innumerevole di problemi legali, politici, etici,
con danni a persone, alberi, cose ed un budget enormemente dilatato.
Quest’opera titanica ed emblematica ha prodotto un film grandioso, epico, ma
anche disordinato, un viaggio ai limiti estremi del cinema e
dell’uomo, che alterna sequenze grandiose a cadute di tono. Merita,
tuttavia, la massima indulgenza per la sua aura leggendaria, guadagnata sul
campo, per il suo essere monumento “vivente” all’ingegno, all’ostinazione ed
alla potenza della visione umana: quella del regista e di “Fitzcarraldo”. Da
segnalare la presenza, nel cast, della “nostra” Claudia Cardinale. Tra le tante
scene indimenticabili per impatto spettacolare, quella da consegnare ai posteri
è la più poetica, la più iconica e la più suggestiva, che rimanda tutto il
potere simbolico di un’impresa folle sorretta da un raziocinio rigoroso: “Fitzcarraldo”
che ritorna in porto, semisconfitto, suonando da un grammofono le celestiali
note di Bellini, come segno che lo spirito umano non può mai essere piegato e
che il viaggio vale più della meta.
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