In un paese della Bassa Emiliana, agli
inizi del ‘900, il giorno della morte di Giuseppe Verdi, nascono due bambini
maschi “predestinati”: Alfredo Berlinghieri e Olmo Dalcò. Nonostante la differenza
di casta, il primo è l’erede di una potente casata di “padroni”, proprietari
terrieri da generazioni, mentre il secondo è figlio di contadini e di padre
ignoto, i due cresceranno insieme e diventeranno amici, attraversando congiuntamente il secolo nei suoi eventi epocali: le lotte di classe, le guerre mondiali, il nazi-fascismo, la liberazione. La storia li dividerà, li renderà nemici e li farà
scontrare più volte, ma non riuscirà mai a cancellare del tutto quell'antico
sentimento amicale, nato puro e disinteressato, in età infantile. Immenso
affresco storico, raccontato in forma epica, straripante nei toni, manierista
nello stile di evocazione pittorica, stupefacente nelle immagini possenti, con
un alto senso del meraviglioso e dell’orrido, del lirico e del tragico, del
sublime e dell’infimo. Opera solenne e maestosa, della durata di oltre 5 ore
(ma divisa in due atti alla sua uscita in sala, per esigenze produttive), è il
film più ambizioso di Bertolucci che vi ha dispensato, con passione ed
opulenza, tutte le sue ossessioni cinematografiche: politica, sesso, storia,
scandalo, amore, utopia, crudeltà, morte. E' un film grande e grandioso, in tutti i sensi, nei pregi
e nei difetti, a cominciare dalla formidabile, e probabilmente irripetibile,
squadra di fuoriclasse messa insieme per il cast e la crew: Robert De Niro,
Gérard Depardieu, Burt Lancaster, Donald Sutherland, Dominique Sanda, Alida
Valli, Sterling Hayden, Stefania Sandrelli, Laura Betti, Romolo Valli, Vittorio
Storaro (alla fotografia), Ennio Morricone (per le musiche). Quest’opera
smisurata, forse troppo per un film solo, intende tracciare una nitida metafora
di circa mezzo secolo (dal 1901 al 1945), raccontando la Storia italiana nei suoi
momenti cruciali, sullo sfondo epico di un melodramma familiare che abbraccia
tre generazioni, con un’intensa anima politica ed un’inevitabile
predisposizione al tragico, il solo modo con cui può terminare la lotta di
classe. E’ indubbio che il film sia indebolito dall'evidente schematismo di
parte, che allontana ogni pretesa di neutralità: il comunista Bertolucci
addirittura si compiace di esaltare il ruolo ed il riscatto del proletario
contadino dal giogo dei padroni sfruttatori, e mette la questione, a lui cara,
dello scontro di classe al centro dell’opera, caricandola, quindi, di troppa enfasi e livore,
con conseguente perdita di lucidità, di rigore storico e di astrazione metaforica. Ma il rigido
impianto “a tesi” alla base dell’opera, sebbene la renda ideologicamente dogmatica,
non ne può oscurare gli enormi meriti stilistici, narrativi, tematici, epici,
lirici, artistici, simbolici, per quella che è, probabilmente, l’ultima grande
epopea corale del cinema italiano. In questo film magniloquente tutto abbonda,
pregi e difetti, ed i momenti alti si sprecano, nel suo continuo oscillare tra
dramma storico e romanzo popolare, utopia romantica e verismo crudele, erotismo torbido e amicizia pudica, asprezza ed eleganza, in un’opulenta sinfonia rapsodica in
cui l’insieme delle parti travolge e appassiona, nonostante qualche nota
stonata qua e là. Alla sua uscita divise la critica, irritò il potere
democristiano, scioccò i moralisti, lasciò perplessi gli stessi comunisti e fu bersagliato dalla censura per alcuni
contenuti indubbiamente forti, in termini di violenza e di sesso. In particolare,
tra le sequenze “scabrose”, sono note quella del rapporto sessuale a tre tra De
Niro, Depardieu e Stefania Casini, con il nudo integrale frontale dei due celebri
attori, e quella in cui il sadico Attila, fattore dei Berlinghieri poi divenuto
camicia nera, violenta ed uccide un adolescente. Per la sua rigida impostazione
politica di parte, il film segnò una battuta d’arresto nell'escalation
internazionale di Bertolucci, lanciato a razzo da Ultimo
tango a Parigi, ottenendo, infatti, una fredda accoglienza negli Stati
Uniti e in altri paesi occidentali. Tra le numerose ed eterogenee fonti
d’ispirazione colte della pellicola, sia dal punto di vista estetico che
tematico, ricordiamo, in modo sparso: Dumas, Shakespeare, il teatro musicale ottocentesco
e quello kabuki seicentesco, e poi opere pittoriche di Ligabue, Van Gogh,
Renoir, Caravaggio, Manet, tutti “piegati” alle esigenze dell’esteta Bertolucci,
che distilla la storia come un alchimista, disorienta lo spettatore tra magia e
“grand guignol”, per affabularlo e condurlo infine al suo talamo, sottinteso
fin dall'inizio: un lavacro purificatore, e monocromatico, di bandiere rosse,
tra retorica intellettuale e delirio di massa, degno della rivoluzione culturale
di Mao. Esistono due eccellenti documentari girati sul set di Novecento, uno di Gianni Amelio e
l’altro del fratello del regista, che raccontano tutte le fasi della
lavorazione del film, che durarono ben 12 mesi, tra il 1974 e il 1975. Essi
sono, rispettivamente, “Bertolucci secondo il cinema” e “ABCinema” e ne
consiglio la visione come arricchimento integrativo dell’opera e preziosa testimonianza
storica.
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