venerdì 16 gennaio 2015

Zelig (Zelig, 1983) di Woody Allen

Anni '20: Leonard Zelig (Woody Allen), ebreo americano di New York, è uno strano omino con traumi infantili, carenze affettive e la misteriosa capacità di adattarsi al suo interlocutore, assumendone i modi e le sembianze. Ricoverato in ospedale per indagini, diviene oggetto di studio di medici curiosi che cercano di comprendere la sua “malattia”, convenendo, infine, di definirla “camaleontismo”, rinunciando così ad ogni spiegazione scientifica. Divenuto famoso, grazie ai media che amplificano la sua portentosa capacità, questo campione di conformismo viene seguito dalla psichiatra Eudora Fletcher (Mia Farrow), che, appassionatasi al suo caso, si convince che, dietro al camaleontismo, si cela il disperato bisogno di essere accettato ed amato. Tra i due sboccerà l’amore e Zelig diverrà un simbolo nazionale, con mode, balli e gadget dedicati alla sua singolare abilità. Dopo una traumatica “guarigione”, uno scandalo sessuale, con conseguente perdita di popolarità, ed una fuga rocambolesca dalla Germania nazista, Leonard ed Eudora potranno, finalmente, convolare a nozze in una New York festante. Capolavoro sarcastico di Allen sotto forma di mockumentary, più geniale che comico, impressionante per l’impianto tecnico stupefacente, gli effetti visivi straordinari, la progettazione concettuale di base e l’irresistibile carica ironica. Sotto forma di satira graffiante, pervasa da un umorismo sottile, si traveste abilmente, come il suo protagonista, da commedia colta, da love story, da ritratto d’epoca, da falso documentario, da denuncia critica della società americana, da parodia storica. Gioca abilmente, e mimeticamente, con lo spettatore utilizzando le stesse “armi” del suo stravagante protagonista, la pedissequa capacità di adattamento, che induce una vertigine ideologica, sfalsando il piano di confine tra realtà e finzione, e celebrando il fake, il trionfo di un uomo che non ha identità, che è tutti e nessuno, che non esiste e che può sparire da un momento all’altro, portando via tutto con sé, compreso il cinema stesso che è suprema illusione. Ma, nel sul livello più intimo, il film è una pungente critica al Sogno Americano, alla sua ingenuità, alla sua matrice qualunquistica; in un’America tanto grande quanto credulona, facile preda di effimere emulazioni di massa, la capacità di apparire nel modo “giusto” al momento “giusto” conta più della reale identità. E’ più importante “chi sembri” rispetto a “chi sei”. Allen lavorò lungamente sull’aspetto concettuale dell’opera, sull’analisi certosina del materiale d’archivio da utilizzare nel film, sulla scelta delle musiche adatte a restituire il sapore dell’epoca, sul cast di attori non professionisti e sul loro aspetto, in modo da evitare ogni possibile anacronismo. Grandioso il lavoro di Gordon Willis alla fotografia, opportunamente invecchiata in modo da rendere convincenti le sovrapposizioni di Allen/Zelig sulle immagini di repertorio, tramite gli incredibili effetti speciali, davvero avveniristici per l’epoca. La paradossale epopea di Leonard Zelig è arricchita da lampi surreali di fantasia superiore e dalla presenza di veri intellettuali, nel ruolo di se stessi, per donare credibilità all’opera. Tra questi ricordiamo Saul Bellow, Bruno Bettelheim e Susan Sontag. Allen avrebbe fortemente voluto che la “divina” Greta Garbo, attrice mito di quell’epoca, prendesse parte al film, ma la sua opera di convincimento non andò in porto. Tra le innumerevoli citazioni colte, anche di se stesso, non si possono non menzionare gli omaggi al mito Orson Welles: Quarto Potere, il memorabile prologo in particolare, e, soprattutto, F come falso, per la celebrazione, contraddittoria, dell’arte come falso da utilizzare come strumento per raggiungere la verità. Tra le tante scene rimaste famose, la più simbolica è quella di Zelig che appare alle spalle di Adolf Hitler, durante un raduno nazista a Monaco di Baviera. Il film fu acclamato unanimemente dalla critica di tutto il mondo ed è, indubbiamente, l’opera più importante del grande regista newyorkese insieme a Manhattan. Ha dato il nome ad una malattia psichiatrica (sindrome di Zelig, ovvero trasformismo identitario dipendente dal contesto ambientale), ad un famoso locale milanese di cabaret ed alla celebre trasmissione televisiva di grande successo che ha lo scopo di lanciare nuovi comici.

La frase: "Ho 12 anni. Vado alla sinagoga. Chiedo al rabbino qual è il significato della vita. Lui mi dice qual è il significato della vita. Ma me lo dice in ebraico. Io non lo capisco, l'ebraico. Lui chiede 600 dollari per darmi lezioni di ebraico." 

Voto:
voto: 4,5/5

Nessun commento:

Posta un commento