Michel Poiccard è un giovane ribelle
senza regole e senza ideali, spudorato delinquente marsigliese che vive la sua
vita “al massimo”, obbedendo solo ai suoi impulsi. Ruba un’auto, scappa dalla
polizia, uccide uno sbirro e seduce Patricia, bella studentessa americana. Alla
fine della tormentata relazione, tra sesso e incomprensioni, lei lo denuncia.
Folgorante opera prima di Jean-Luc Godard, da un soggetto di Truffaut, che costituisce
uno dei manifesti più degni, intensi, famosi e celebrati della Nouvelle Vague francese. Opera
fondamentale nel rinnovamento del linguaggio cinematografico che avvenne negli
anni ’60, grazie ad autori come Fellini, Antonioni, Resnais, Chabrol, ha la medesima
sfacciataggine del suo ruvido protagonista nel fare a pezzi le regole canoniche
della narrazione filmica, con stravolgimenti all’insegna di una frenetica
libertà espressiva e di un’esuberanza stilistica improntata sul dinamismo. Ecco,
quindi, i dialoghi improvvisati, l’ispirazione immediata che elude la
“tirannia” della sceneggiatura, la direzione elastica degli attori, il
montaggio “jump cut”, le riprese
sghembe o retrostanti, l’utilizzo della luce naturale, l’attore protagonista
che guarda in macchina e, confidenzialmente, si rivolge al pubblico. Le parole
d’ordine di Godard sono trasgressione, anarchia ed avanguardia, ma l’obiettivo
di questa vivace sperimentazione è basato su uno scopo assolutamente artistico:
dar vita ad un cinema nuovo ed autentico, rifacendosi, però, ai modelli
immaginari delle pellicole classiche, in questo caso Humphrey Bogart ed il noir
americano. Queste tecniche, stranianti, rompono la struttura narrativa
tradizionale e modificano anche la fruizione stessa della pellicola,
interrompendo, sul nascere, il processo empatico di immedesimazione tra
pubblico e personaggi. A tutto questo si aggiunge un citazionismo colto ed
esasperato (Godard è uno dei registi di maggior fonte d’ispirazione per
Tarantino, che ha addirittura chiamato la sua casa di produzione col titolo di
un suo film),
che va dal “B movie” d’oltreoceano al
neorealismo di Rossellini, dall’hard boiled americano al nostro Antonioni, in
una miscela di connessioni tanto geniali quanto “scorrette”, alla maniera
dell’autore e dei suoi antieroi. L’uso estremo delle metafore, il rifiuto del
divismo e la libertà creativa del regista francese sono già ampiamente presenti
in questo suo opus numero uno, che
consacrò Jean-Paul Belmondo come futura star internazionale, appiccicandogli
addosso quel ruolo da duro strafottente che si porterà dietro per tutta la
vita. Chi non ha amato il film lo ha accusato di essere più derisorio che
realmente rivoluzionario, più preoccupato di distruggere che di costruire, ma
il tempo ha dato ragione a Godard ed ha permesso, grazie ad una maggiore obiettività
di analisi, di cogliere in pieno i tanti aspetti artisticamente rilevanti dell’opera,
che vanno bene al di là di un mero elenco di innovazioni tecniche. La sua peculiare
densità tematica risiede nei contrasti, che sono alla base della sua
ispirazione: quello tra realtà e mito, già accennato in precedenza, quello tra
dolore ed accidia, due estremi che simboleggiano i personaggi di Patricia e
Michel e diventano, quindi, emblematici della separazione tra i sessi,
dell’incomunicabilità e della morte. Tutto questo si sublima nel finale geniale
e pregnante, Patricia che non comprende le parole di Michel, strizzando
l’occhio ad Antonioni, ma anche a Fellini (l’ultima scena de La
dolce vita). E’ corretto, quindi, parlare sempre di colta eversione e di
creativa amoralità, quando ci si riferisce a Godard ed a questo film in
particolare, la cui alta connotazione tragica è più romantica che ideologica,
ed assume la valenza di una rivolta non solo morfologica, bensì concettuale. La pellicola fu premiata al
Festival di Berlino con l'Orso d'oro alla migliore regia ed ha anche avuto un
insipido remake hollywoodiano: All'ultimo
respiro (1983), diretto da Jim McBride e interpretato da Richard Gere.
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