Roma, 1 novembre 1975, ultimo giorno di
vita di Pier Paolo Pasolini, regista, poeta, scrittore, intellettuale,
omosessuale, anticonformista, provocatore, figura di spicco e di “rottura” tra
le più eminenti ed originali del secolo scorso. La sua vita, la sua opera e la
sua morte hanno tracciato una parabola esistenziale unica, sospesa tra genio e
perdizione, poesia e trasgressione, paradiso e inferno, la cui eredità
culturale, filosofica, politica e morale è ancora ben viva, oggi più che mai,
in un’epoca che ha visto avverarsi molte delle sue lungimiranti previsioni. L’italoamericano
del Bronx, il “bad boy” del cinema
americano, Abel Ferrara, ci racconta, in immagini, quel grigio giorno di
Ognissanti del 1975 e quella notte maledetta sul litorale romano, quando il
percorso terreno del regista poeta s’interruppe, bruscamente e brutalmente, in
uno squallido campetto di calcio, tra baracche ed immondizia, nel buio
dell’Idroscalo di Ostia, con il mare ad un passo ed una teatralità così tragica
che neanche Pasolini stesso avrebbe saputo inscenare. Assistiamo dunque, in
rapida sequenza, ad un’intervista per un giornale francese in cui Pasolini
parla del suo ultimo film, Salò
o le 120 giornate di Sodoma, che ancora doveva uscire nelle sale e già
suscitava furibonde polemiche per il suo contenuto scioccante, di cui vediamo
anche scorrere alcune sequenze. Poi assistiamo al ritorno del poeta nella sua
casa romana, il tenero rapporto con la madre e la sorella, che lo chiamano “Pieruti”,
in dialetto friulano, il pranzo con suo
cugino Nico Naldini e l’attrice Laura Betti (che dice di avere appena finito di
girare Vizi privati, pubbliche virtù
di Miklós Jancsó e racconta anche del suo recente doppiaggio della voce del
diavolo nel celeberrimo horror americano L’esorcista),
la famosa ultima intervista concessa a Furio Colombo (quella del “siamo tutti in pericolo!”), la cena con
Ninetto Davoli e famiglia all’abituale ristorante “Pommidoro” di San Lorenzo,
per parlargli del suo prossimo film, in cui Davoli avrebbe dovuto recitare
insieme a Eduardo De Filippo, Porno-Teo-Kolossal,
una versione alternativa e donchisciottesca dell’epifania, dal punto di vista
di uno dei Re Magi. E poi ancora: momenti di riflessione e di scrittura del suo
ambizioso romanzo, “Petrolio”,
rimasto incompiuto, fino alla sua ultima notte “proibita” romana, nei viali
vicino alla stazione Termini, a bordo della grigia Alfa Romeo sportiva, in
cerca di uno dei suoi “ragazzi di vita” con cui soddisfare i propri appetiti
sessuali, in qualche squallido angolo buio di periferia. Il resto è cronaca:
l’incontro con il giovane sbandato Pino Pelosi, detto “la rana”, la cena al
“Biondo Tevere” di via Ostiense, il misero campetto all’Idroscalo di Ostia, il
rapporto omosessuale e la tragica morte, massacrato di botte da
misteriosi assalitori e poi investito dalla sua stessa auto. Ferrara ci mostra
la sua versione dei fatti, non che la cosa sia poi così importante
nell’economia del film, rinunciando sia alla ridicola tesi ufficiale (secondo
cui fu solo Pelosi ad uccidere Pasolini, in seguito ad un litigio scaturito da
richieste sessuali “particolari” da parte del poeta), sia a quella, più effettistica, del
complotto di matrice politica (Pasolini era scomodo a molti e le sue sferzanti
denuncie creavano non poco “imbarazzo” ai poteri forti). Il regista del Bronx
sceglie una via di mezzo, effettivamente realistica, secondo cui Pasolini
sarebbe stato ucciso da un gruppo di tre balordi, giunti sul posto per una
rapina, e poi scatenatisi contro di lui per odio omofobico. Come ben sappiamo,
Pelosi fu l’unico ad essere condannato per il delitto, scontando nove anni di
carcere, e la sentenza negò ogni coinvolgimento di altre persone.
Ma, nel 2010, il caso giudiziario è stato riaperto, dopo l’intervista al
Pelosi, che ha clamorosamente ritrattato la sua confessione del 1976, grazie anche
all’azione incessante di politici come Walter Veltroni e di molte figure
eminenti della cultura italiana. Questo Pasolini
di Ferrara è un biopic atipico diviso tra due anime: realtà e sogno, vita e
arte. Nella prima ci viene mostrato il poeta nelle normali attività del suo
ultimo giorno terreno: Ferrara opta per una scarna purezza espressiva, con
evidente richiamo all’estetica delle prime pellicole pasoliniane, mettendo in risalto il suo pensiero, le sue
idee, la sua arte, piuttosto che la fredda cronaca dei fatti. Ma se Willem
Dafoe è incredibilmente somigliante a Pasolini, il risultato complessivo è sì rispettoso,
ma frammentario, calligrafico e riesce a restituirci ben poco dell’enorme
portata culturale, politica e filosofica dell’intellettuale bolognese.
Assistiamo, quindi, ad una sequenza di omaggi e di riferimenti precisi, che
comunque faranno la gioia degli ammiratori e degli studiosi di Pasolini, che ne
mimano e ne ripetono gestualità e detti famosi, replicandone la forma a
discapito dell’essenza. Ma è altresì ovvio che sarebbe stato impossibile
raccontare degnamente Pasolini in un solo semplice film, tanto più uno breve e
condensato in un’unica simbolica giornata di vita, come questo di Ferrara. Dove
invece la pellicola decolla, prendendo percorsi visionari di notevole
suggestione, è nella sua anima onirica, quando Ferrara ci mostra, con immagini
di pregnante allegoria, tra l’altro profondamente pasoliniana, una
rappresentazione visiva dei progetti artistici del protagonista: frammenti di “Petrolio”, tra cui la scena della fellatio di gruppo nel campetto di
periferia, da cui traspare, con immagini crude ed efficaci, tutto il manierismo
viscerale e violento del regista del Bronx, e, soprattutto, ipotetiche sequenze
di Porno-Teo-Kolossal, con il
“fedele” Ninetto Davoli nel ruolo di Epifanio/Eduardo (anche se parla in
romanesco) e Riccardo Scamarcio in quello del giovane Ninetto. Tutta la parte
di Porno-Teo-Kolossal, ambientata
nella Roma moderna, è il punto più alto del film, quello in cui meglio si
esplicita la dualità dell’essenza di Pasolini, diviso tra poesia e peccato, misticismo
e perdizione, con l’amara constatazione della mancanza di senso, punto di
arrivo cruciale della sua analisi intellettuale, senza però che questo implichi
una resa ideologica. Le scene dell’orgia catturano degnamente il rapporto
sesso-politica, tipicamente pasoliniano, mentre quelle della vana ascesa in
Paradiso ne rimandano il genio visionario, l’altezza poetica ed il problematico
cinismo filosofico. Altri momenti splendidi del film di Ferrara, due piccole
gemme brillanti ma semi nascoste, sono il toccante abbraccio dell’amata madre
al risveglio del poeta ed il lirico inserto della partita a pallone con i
ragazzi, in un terroso campetto di periferia, con Pasolini felice che corre,
dribbla e calcia, “in abiti da signore”. In alcune scene il regista americano
s’interroga sul ruolo e sul destino dell’intellettuale nella società moderna e
dimostra di avere realmente ammirato e studiato Pasolini, infatti cerca di
tradurne in immagini, riuscendoci in parte, il concetto secondo cui: “scandalizzare è un diritto, essere
scandalizzati è un piacere. […] Ma lo
scandalo di per sé non significa nulla se non ha un significato politico”. Questo
film di Ferrara è controverso, diseguale, ma possente e appassionato. Alla
teoria del complotto preferisce, saggiamente, quella della rabbia proletaria e
più che sul documento di cronaca pone l’accento sull’arte, dando forma concreta alle idee
del poeta attraverso immagini forti, allucinate e visionarie. Presentato al
Festival di Venezia è stato snobbato dalla giuria e ha diviso in due la
critica, generando sconcerto o ammirazione. E’ dunque, anche solo per questo, da vedere.
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