Scene dalla guerra in
Vietnam divise in due parti: nella prima ci viene mostrato il duro addestramento
dei marines al campo reclute di Parris Island, sotto il giogo feroce del
terribile sergente Hartman, capo istruttore dei giovani coscritti. Attraverso
metodi brutali, rituali assurdi, angherie psicologiche e umiliazioni di ogni
tipo, Hartman mira a un solo scopo: tramutare questi uomini in killer spietati,
letali macchine da guerra che non conoscono esitazione. Il mite soldato
Lawrence, soprannominato "palla di lardo", non resiste ai continui
soprusi, di cui è vittima per la sua goffa indolenza, e impazzisce. Nell’ultima
notte al centro di addestramento, uccide il sergente istruttore e poi si toglie
la vita. Nella seconda parte le reclute sono diventate dei marines e sbarcano
in Vietnam, dove trovano una situazione complessa, una guerra atroce, un
generale senso di sfiducia ed un fiero oppositore che non dà tregua. Inviati
nella città di Huè, sventrata dai bombardamenti, saranno decimati dal fuoco di
un letale cecchino, che sembra l’incarnazione stessa della morte. Il
protagonista principale di entrambi i segmenti è il soldato Davis, detto
“Joker” per il suo carattere scherzoso, che tende a sdrammatizzare ogni
situazione. Tornerà a casa vivo, cambiato e “senza più paura”. Kubrick torna a
parlare di guerra, dopo il suo capolavoro assoluto, Orizzonti
di Gloria, che è una delle vette dell’antimilitarismo, adattando il romanzo
“Nato per uccidere” (“The Short-Timers”) di Gustav Hasford, un ex Marine e corrispondente
dal fronte, proprio come “Joker”. Era quasi impossibile, per uno come lui, non
fare i conti, prima o poi, con il conflitto in Vietnam, nemesi e vergogna della
storia americana, sebbene questo sia stato “abusato” da una filmografia
cospicua quanto eccellente, con alcuni capolavori e diversi film validi ad esso
dedicati. Ma il grande regista, che aveva tempi biblici di lavorazione per la
sua maniacale ossessione di controllo assoluto sulle sue opere, con continua
ricerca della “perfezione”, fu anticipato da Oliver Stone con il suo Platoon, che vale la metà del film di
Kubrick ma che ebbe un grande successo di critica e pubblico, vincendo 4 Oscar
“pesanti”, tra cui miglior film. Tutto questo tolse visibilità a Full Metal Jacket, che, uscito poco
dopo, fu considerato da molti spettatori come l’ennesimo film sul Vietnam, ottenendo
incassi poco lusinghieri, anche a causa del pesante divieto ai minori di 18
anni, imposto dalla censura per i contenuti forti e la violenza estrema di
alcune sequenze. In realtà quest’opera spiazzante, atipica ed assolutamente
originale per concezione ed impostazione, è un altro capolavoro nella
formidabile carriera dell’autore, l’ennesimo tassello della sua azione di
“ridefinizione” dei canoni cinematografici attraverso la sua visione,
particolare quanto geniale. Fin dal suggestivo prologo del taglio dei capelli
ci rendiamo conto di essere di fronte ad un film diverso, che sceglie
volutamente di eliminare quasi del tutto i “protagonisti” iconografici delle
pellicole di questo tipo; innanzi tutto scompare il Vietnam, così come lo
abbiamo sempre inteso nel nostro immaginario: totalmente assente dalla prima
parte ambientata a Parris Island, compare in forma inusuale nella seconda con
scenari cupi e angoscianti di città in disfacimento, che fanno più Europa
dell’est che foreste tropicali, come invece vorrebbe la tradizione. Il Vietnam
di Kubrick è un luogo elusivo, un simbolo vacante, un vuoto interiore, metafora
del non senso e, quindi, dell’assurdità della guerra. E se il Vietnam è
assente, anche i viet-cong non si vedono mai, sono una minaccia costantemente
incombente ma senza volto, senza corpo, persino il terribile cecchino, che
terrà in scacco un intero plotone di “assassini” addestrati a tutto, si
rivelerà una beffarda sorpresa, ulteriore allegoria del non senso prima citato.
E persino la guerra, quella materiale fatta di spari, di sangue e di bombe, è
latitante per tre quarti del film, per poi apparire in tutta la sua ferocia
nella parte finale a Huè. La guerra di Full
Metal Jacket è essenzialmente interiore, psicologica, è il dark side dell’animo umano, è l’istinto
belluino di sopraffazione, che viene risvegliato, con un incessante lavaggio
del cervello, da zelanti galoppini del potere (Hartman), fino allo sfinimento
psichico, all’annullamento morale ed alla trasformazione dell’uomo nel suo lato
oscuro, violento, primordiale. La guerra di Kubrick è uno stato mentale, un
confine estremo, un punto di non ritorno, che pochi riescono a sostenere senza
impazzire e da cui non si può mai più uscire, se non corrotti, annichiliti, cambiati
in peggio. Per enfatizzare ulteriormente lo straniamento che deriva da queste
assenze, Kubrick ricorre ad un espediente già visto nel suo cinema, ovvero
determinare una palese contrapposizione tra il realismo dei toni e dei
contenuti e l’evidente astrazione dei luoghi e degli scenari. Non a caso il
film venne girato nei sobborghi di Londra “travestiti” da Vietnam, per
innescare questo disagio visivo nello spettatore. Anche la lunga sequenza
dell’intervista fatta dalla troupe televisiva ai soldati al fronte va letta in
tal senso, il doppio livello di raffigurazione della guerra induce una
distorsione della “realtà” filmica, una sorta di illusione dentro l’illusione
che mantiene alto il livello di smarrimento. In questo film glaciale, crudo e
agghiacciante, non esistono eroi, né nobili ideali, non esiste retorica, né
patriottismo, né speranza. C’è solo l’orrore, insensato, della guerra ed il
senso di sconcerto che ne deriva, in chi la fa e in chi la subisce. Ed il
nonsenso, elemento cruciale dell’intero pellicola, continua a manifestarsi
anche nel possente finale surreale, i soldati che marciano di notte tra le
macerie cantando “viva Topolin”, l’ultimo stridente contrasto di questo
capolavoro, straordinario e fortemente innovativo, come solo un film di Kubrick
sa esserlo. E, al solito, anche in questa pellicola l’aspetto tecnico, la
fotografia e la scelta delle musiche sono di altissimo livello, come in tutte
le opere del regista. Un’altra “scommessa” vinta e un’altra pietra miliare di
una carriera che ha pochi eguali.
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