In una villa di campagna della provincia
piacentina vivono una donna cieca ed i suoi quattro figli: Leone, ritardato ed
epilettico, Sandro, narcisista affetto da disturbi mentali, Giulia, rimasta
infantile e morbosamente legata a Sandro, ed Augusto, il solo apparentemente
“normale”, per quanto mediocre, che aspira ad evadere dalla sua triste realtà
familiare. Sandro, ossessionato da un disagio interiore sempre crescente,
ucciderà la madre ed il fratello Leone, sotto gli occhi di Giulia che,
spaventata, decide di non intervenire. Folgorante esordio cinematografico di Marco
Bellocchio, con questo cupo dramma familiare, angosciante e dissacrante, che
costituisce, a tutt’oggi, il suo capolavoro. Epocale ritratto in nero di una
borghesia malata, allucinata, sospesa in un inferno quotidiano di perverso
immobilismo, da cui traspare, evidente, quel disagio giovanile esistenziale,
sociale e sessuale, che poi esploderà, qualche anno dopo, nelle proteste
incendiarie del ’68. L’autore ci rappresenta, con asettica precisione, un
disturbante microcosmo di provincia, metafora potente di una realtà sociale
ormai compromessa, di una società non più in sintonia con le esigenze
giovanili, inadatta a capirne i bisogni ed a fornirgli le risposte tanto
attese. Bellocchio, con pungente cinismo, raffigura la ristrettezza culturale,
il conformismo ipocrita, la mancanza di prospettive e la gretta staticità della
provincia italiana, in cui si cela un malessere profondo, atavico, che non può
più essere ignorato. Anche la
Chiesa cattolica, raffigurata come uno strumento arcaico e
bigotto di controllo morale, contribuisce a generare, e far perseverare, questo
sistema di alienazione, che avvelena l’animo dei giovani come un cancro che
rode dal di dentro. La dimensione patologica dei personaggi ed il loro evidente
rifiuto della razionalità, diventa allegoria di ribellione, di attacco al
potere, volto all’affermazione della propria individualità, del proprio diritto
di vivere secondo la propria indole, liberandosi dalle trappole del conformismo
di un modello sociale ormai vetusto. La famiglia senza padre, mostrata dal
regista, è il simbolo evidente di quelle grandi trasformazioni di costume
avvenute negli anni ’60, che misero in crisi il vecchio modello patriarcale,
ormai non più consono rispetto ai cambiamenti epocali in corso ed alle nuove
esigenze civili. Questo psicodramma sociale, spietato e disperato, è un atto
d’accusa, un grido di dolore, una rivendicazione di diversità ed una richiesta
di attenzione, che sconvolse buona parte della critica e causò accessi
dibattiti nei salotti intellettuali. La sua indiscutibile azione di rottura fu
paragonata, addirittura, a opere capitali come Ossessione di Visconti o À
bout de souffle di Godard. L’autore riprenderà questo discorso, quasi
vent’anni dopo, cercando di chiudere idealmente il cerchio, con Gli occhi, la bocca (1982), che risulta
però anacronistico, e quindi meno incisivo, rispetto alla nuova sensibilità
degli anni ’80.
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