Quattro amici, gaudenti e
malinconici, stanchi della loro vita noiosa, decidono di suicidarsi in un’orgia
di eccessi a base di cibo e sesso. Per attuare il loro proposito si chiudono in
una vecchia villa fuori Parigi e, in compagnia di tre prostitute che fungono da
“sacerdotesse” del macabro rito, mangiano fino alla morte. Celebre capolavoro
grottesco di Ferreri, che qui dà fondo a tutta la sua verve provocatoria per tracciare questo delirante, ma intenso,
apologo contro il consumismo ed il benessere materiale portati dal boom
economico, che hanno instillato un’incurabile malattia nell’animo umano, la
noia esistenziale, condannandolo ad un’ineluttabile deriva autodistruttiva. Il regista
si sofferma, nella prima parte che presenta i quattro protagonisti, su questo gioco
perverso che ottunde la coscienza e rende l’animo sterile, perché perennemente inappagato
dal vorace meccanismo tipico del consumismo, in base al quale, una volta soddisfatto
un bisogno materiale, ci si sente presto scontenti e se ne cerca un altro
nuovo, che appaia “diverso”. Si piomba, quindi, nella depressione,
nell’asfittico e perenne tedio che fa sembrare la vita inutile e priva di
senso. Tra Buñuel e Pasolini (molti hanno definito La grande abbuffata come un antesignano grottesco del suo Salò),
quest’opera carnale, eccessiva, irriverente e godereccia è lo sberleffo supremo
a moralisti e perbenisti del grande regista milanese, che qui costruisce un
potente apparato allegorico, ricorrendo ad immagini forti per attuare una
simbologia estrema, il cui intento, caustico, è quello di indurre uno shock
ideologico, con conseguente riflessione sui mali del capitalismo. Pesantemente
criticato dai critici per le sequenze “volgari”, su tutte quella, famosa, del
meteorismo con il gabinetto che esplode, ebbe, di contro, un grande successo di
pubblico, anche se non tutti ne colsero, in prima istanza, la finissima
dimensione surreale e la dissacrante carica polemica. In questo dramma
pungente, pervaso da dolente ironia nera, tutto è all’eccesso, tutto è
grottesco, tutto è orgiastico, al punto da indurre, nello spettatore, la medesima
assuefazione dei sensi di cui sono “malati” i personaggi principali, vittime
imbelli di un più profondo malessere sociale. L’unico spiraglio di apertura
positiva in questa pessimistica apocalisse dell’uomo moderno, viene concesso
alla figura femminile, la “vestale” Andrea, l’unica ad essere biologicamente
connessa alla vita, perché artefice della procreazione, invece che alla morte. Un
merito innegabile di questo inquietante e lubrico baccanale fisiologico è
l’acutezza dello sguardo, la sua arguta preveggenza nell’intuire modelli
comportamentali aberranti che, oggi, sono quasi divenuti “normali” in certi
ambiti sociali dediti all’opulenza sfrenata, alla dipendenza da consumi ed alle
manie depressive. La schizofrenica decadenza dei costumi, abilmente ritratta
dal regista con satirica ferocia, è, ormai, quasi una prassi per taluni strati della
società occidentale moderna. Nel cast stellare brillano i quattro protagonisti:
Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret e Michel Piccoli. Notevole
il perfido sarcasmo dell’autore anche nella caratterizzazione dei personaggi:
ad esempio, per Mastroianni, simbolo vivente del latin lover elegante, ha
tratteggiato un erotomane incallito, un autentico maniaco schiavo del sesso
occasionale e perennemente inappagato. E’, probabilmente, il più famoso tra i
film di Ferreri.
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