venerdì 9 gennaio 2015

La grande abbuffata (La grande bouffe, 1973) di Marco Ferreri

Quattro amici, gaudenti e malinconici, stanchi della loro vita noiosa, decidono di suicidarsi in un’orgia di eccessi a base di cibo e sesso. Per attuare il loro proposito si chiudono in una vecchia villa fuori Parigi e, in compagnia di tre prostitute che fungono da “sacerdotesse” del macabro rito, mangiano fino alla morte. Celebre capolavoro grottesco di Ferreri, che qui dà fondo a tutta la sua verve provocatoria per tracciare questo delirante, ma intenso, apologo contro il consumismo ed il benessere materiale portati dal boom economico, che hanno instillato un’incurabile malattia nell’animo umano, la noia esistenziale, condannandolo ad un’ineluttabile deriva autodistruttiva. Il regista si sofferma, nella prima parte che presenta i quattro protagonisti, su questo gioco perverso che ottunde la coscienza e rende l’animo sterile, perché perennemente inappagato dal vorace meccanismo tipico del consumismo, in base al quale, una volta soddisfatto un bisogno materiale, ci si sente presto scontenti e se ne cerca un altro nuovo, che appaia “diverso”. Si piomba, quindi, nella depressione, nell’asfittico e perenne tedio che fa sembrare la vita inutile e priva di senso. Tra Buñuel e Pasolini (molti hanno definito La grande abbuffata come un antesignano grottesco del suo Salò), quest’opera carnale, eccessiva, irriverente e godereccia è lo sberleffo supremo a moralisti e perbenisti del grande regista milanese, che qui costruisce un potente apparato allegorico, ricorrendo ad immagini forti per attuare una simbologia estrema, il cui intento, caustico, è quello di indurre uno shock ideologico, con conseguente riflessione sui mali del capitalismo. Pesantemente criticato dai critici per le sequenze “volgari”, su tutte quella, famosa, del meteorismo con il gabinetto che esplode, ebbe, di contro, un grande successo di pubblico, anche se non tutti ne colsero, in prima istanza, la finissima dimensione surreale e la dissacrante carica polemica. In questo dramma pungente, pervaso da dolente ironia nera, tutto è all’eccesso, tutto è grottesco, tutto è orgiastico, al punto da indurre, nello spettatore, la medesima assuefazione dei sensi di cui sono “malati” i personaggi principali, vittime imbelli di un più profondo malessere sociale. L’unico spiraglio di apertura positiva in questa pessimistica apocalisse dell’uomo moderno, viene concesso alla figura femminile, la “vestale” Andrea, l’unica ad essere biologicamente connessa alla vita, perché artefice della procreazione, invece che alla morte. Un merito innegabile di questo inquietante e lubrico baccanale fisiologico è l’acutezza dello sguardo, la sua arguta preveggenza nell’intuire modelli comportamentali aberranti che, oggi, sono quasi divenuti “normali” in certi ambiti sociali dediti all’opulenza sfrenata, alla dipendenza da consumi ed alle manie depressive. La schizofrenica decadenza dei costumi, abilmente ritratta dal regista con satirica ferocia, è, ormai, quasi una prassi per taluni strati della società occidentale moderna. Nel cast stellare brillano i quattro protagonisti: Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret e Michel Piccoli. Notevole il perfido sarcasmo dell’autore anche nella caratterizzazione dei personaggi: ad esempio, per Mastroianni, simbolo vivente del latin lover elegante, ha tratteggiato un erotomane incallito, un autentico maniaco schiavo del sesso occasionale e perennemente inappagato. E’, probabilmente, il più famoso tra i film di Ferreri.

Voto:
voto: 4,5/5

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