Riggan Thomson è una ex star del cinema alla
soglia dei 60 anni che, dopo aver raggiunto il successo mondiale e l’apice
della notorietà negli anni ’90, nel ruolo del supereroe alato Birdman, è caduto
nel dimenticatoio. Per risalire la china e dimostrare il suo talento, innanzi
tutto a se stesso, ha rinnegato il suo passato di pellicole commerciali,
lanciandosi nell’ardua impresa di adattare, dirigere e interpretare un testo di
Raymond Carver ("Di cosa parliamo
quando parliamo d'amore"), da portare in scena in un famoso teatro di
Broadway. Nel progetto sono coinvolti il suo storico produttore, Jake, sua
figlia Sam, ex tossica, ed un cast eterogeneo tra cui spiccano l’istrione Mike
Shiner, talentuoso ma indisciplinato, la tenera Lesley, che ha sempre cullato
il sogno di calcare un palcoscenico di Broadway, e l’insicura Laura, amante di
Riggan. Alle tante difficoltà oggettive connesse all’impresa, si aggiungono i
problemi personali e psicologici di Riggan, tra cui l’ingombrante presenza del
suo alter ego Birdman, amato e odiato, che gli appare e gli parla, sotto forma
di “visioni”, cercando di minarne la tenacia, affinchè desista dal difficile
compito intrapreso per “ritornare” da lui. Splendida commedia irriverente del
messicano Iñárritu, che firma così il suo film migliore, più maturo e denso per
tematiche trattate, riferimenti culturali, allegorie filosofiche ed un perfetto
equilibrio formale tra il suo innato talento virtuosistico (anche stavolta la
cifra stilistica dell’opera è l’iperbole) e l’esigenza di una messa in scena
teatrale, e, quindi, classica. Brillante già nell’impostazione iniziale, che
indulge nel metacinema, la scelta del protagonista, Michael Keaton (ex celebre
Batman burtoniano), la cui parabola professionale ricalca perfettamente quella
del suo personaggio, Riggan Thomson, questo film solido e agrodolce, con punte
da black comedy, dialoghi pungenti,
irresistibili situazioni sopra le righe e momenti visionari che sconfinano nel
metafisico, si assesta saldamente come una delle migliori pellicole in assoluto
dell’anno 2014. Se sono evidenti i riferimenti a Robert Altman (l’adattamento
da Carver, da cui è tratto America
Oggi, la presa in giro surreale
del mondo del cinema hollywoodiano, l’utilizzo espressivo dei piani sequenza),
è con il capolavoro di Bob Fosse, All
that jazz, che questa frizzante opera di Iñárritu ha i debiti maggiori.
Il paragone tra i due protagonisti, Joe Gideon e Riggan Thomson, è
perfettamente calzante: entrambi sono due artisti che cercano di riemergere,
artisticamente ed umanamente, portando in scena uno spettacolo ambizioso, tra
mille difficoltà, in lotta con se stessi e con gli altri in un momento delicato
e decisivo della propria esistenza. Entrambi vivono l’esperienza a due livelli:
la dimensione reale e quella onirica, la visione della “dama bianca”, che
accompagna Gideon verso la morte, e quella di Birdman, simbolo fantastico del
proprio passato, che lo ostacola nel proprio percorso evolutivo, reclamando il
suo spazio esclusivo, come un’amante gelosa e possessiva, che mira ad impedire
l’improbabile resurrezione artistica di Riggan. Anche la costante fusione tra i
due mondi appena citati, al punto che diventa difficile distinguere la finzione
dalla realtà, l’universo interiore da quello oggettivo, deve parecchio al film
di Fosse; ma qui innesca ulteriori livelli di complessità narrativa, che
rendono il linguaggio filmico tanto sperimentale quanto accattivante. Basti
pensare all’assoluta convergenza tra la piéce teatrale diretta da Riggan e la
sua vita reale, i suoi rimorsi sentimentali, il suo bisogno disperato di essere
amato, accettato, gratificato semplicemente per ciò che è. Ma dove il film di Iñárritu
diventa originale, e, addirittura, esplosivo, è nell’adattare l’eterna antitesi
arte-vita alla sensibilità moderna, instillandovi pillole di tutte le psicosi
contemporanee: l’ossessione per la celebrità, l’ego smisurato, le degeneri
regole della popolarità “social”, imposte dai nuovi media hi-tech, per i quali
virale è sinonimo di potere ed il valore si misura in base al numero di “like”
ricevuti. Gustosissima la messa alla berlina dei cinecomic, i blockbuster sui supereroi stracolmi di effetti
speciali, che avrebbero favorito l’imbarbarimento culturale delle nuove
generazioni, con la sfacciata messa a fuoco dell’eterna contrapposizione tra
cultura pop e cultura “alta” (letteratura, teatro, cinema d’essai), che qui
assume la valenza di un grottesco conflitto interiore (Riggan versus Birdman). Emblematica la scena
iniziale, che già contiene, abilmente celato, il senso intimo del film: il
protagonista che medita, guardandosi allo specchio, con la significativa
scritta in basso a destra (“A thing is a
thing not what is said of that thing”) ed il poster di Birdman, alle sue
spalle, che lo “osserva” torvo. Tra gli altri temi toccati, da questo
ribollente tumulto vulcanico, citiamo la sferzante presa in giro dei critici
d’arte (Riggan dice chiaramente che un critico è un artista fallito e privo di
talento) e la rappresentazione dello spazio dell’azione, i camerini, i corridoi,
la stessa New York, sotto forma di palcoscenico, in funzione del mondo interiore
del protagonista, che cerca di “volare” per liberarsi di se stesso e
raggiungere ciò che cerca: successo, riconoscimento, amore. Altri elementi
notevoli di quest’opera scintillante e trionfalmente ridondante sono la
stravagante colonna sonora jazz, gli impagabili momenti surreali (Riggan che
corre in mutande attraverso Times Square) e le grandi interpretazioni del cast
sontuoso, in cui svettano un superlativo Michael Keaton, che ci regala una
performance memorabile e “da Oscar”, ed il sempre bravo Edward Norton, ancora
una volta a suo agio in un ruolo estremo. Il tocco di genio definitivo è nello
splendido epilogo ambiguo, metafisico ed allegorico, che lascia interdetti ed ammirati.
A pensarci bene, non ci poteva essere finale diverso.
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