domenica 25 gennaio 2015

Il profeta (Un prophète, 2009) di Jacques Audiard

Malik El Djebena, diciannovenne francese di origine magrebina, analfabeta e dall’infanzia turbolenta, viene condannato a 6 anni di carcere per rapina. Qui finisce sotto la protezione di un mafioso corso, Luciani, che gli consentirà la scalata al potere criminoso, partendo da un cruento rito d’iniziazione. La scaltrezza e la determinazione di Malik gli consentono una rapida ascesa nella gerarchia della mala, fino al punto di ribellarsi al boss che lo ha “creato” con un abile colpo di mano. Uscirà di prigione come un capo e col soprannome di “profeta”, rispettato dagli arabi, temuto dai rivali e con una scorta armata ad attenderlo. E’ un romanzo (criminale) di formazione questo noir carcerario di Audiard, che realizza un film teso, secco, spietato ed efferato, ma di assoluta potenza tragica. Mostrandoci dal di dentro, con crudo realismo e scioccante brutalità, la vita quotidiana delle carceri, il talentuoso autore parigino ne traccia un evidente ritratto critico, mettendo in risalto le troppe falle del sistema penitenziario: dalle facili uscite per “buona condotta” all’assoluta incapacità rieducativa, dove persino la legittima punizione diventa un’occasione per creare un mondo parallelo, e nascosto, di ordinaria violenza, in cui il crimine persevera o, addirittura, prolifera. E questo magma infernale di crimini e misfatti trasformerà il giovane Malik da “pulcino” smarrito in lupo famelico, da bulletto di strada in  spietato delinquente, con il carisma del boss. Con scelte narrative forti ed un didascalismo coraggioso, Audiard punta in alto e va al cuore del problema con lucido rigore, offrendoci un imponente affresco di grande spessore drammatico, sebbene, a volte, iperdilatato. Gli attori,  poco conosciuti, sono bravissimi e tutti con la faccia giusta, a partire dal giovane protagonista franco-algerino Tahar Rahim. Il film, premiato a Cannes con il Gran Premio Speciale della Giuria, è diventato famoso per la terribile scena dell’iniziazione di Malik: l’efferata uccisione di un altro detenuto arabo, utilizzando solo una lametta da barba. Una scena lunga e scioccante, di cui proprio nulla ci viene risparmiato, ma coerente con il tono ed il senso dell’opera: un catartico e metaforico lavacro di sangue, da cui iniziare il proprio cammino criminoso, un cammino inevitabile e senza ritorno.

Voto:
voto: 4/5

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