Sei personaggi,
esponenti dell’alta borghesia, percorrono più volte una strada deserta, avvolta
in un panorama desolato, nel tentativo di trovare un ristorante e consumare un
pasto. Ma non ci riescono mai perché, ogni volta che ne trovano uno, qualcosa va
storto all’ultimo momento. Essi sono: due coppie sposate, la sorella ubriacona
di una delle donne e un diplomatico, ambasciatore a Parigi di un piccolo stato
ispanico, che traffica droga. A costoro si aggiungono, a turno, altre figure
pittoresche, quali un prete che uccide i moribondi, dopo avergli concesso
regolare assoluzione, o un ottuso ufficiale dell’esercito che ha un antico
crimine da confessare. Straripante satira nera, sotto forma di favola
allegorica, di raffinata bellezza formale e di caustico spessore polemico, che
utilizza tutte le “armi” tipiche del grande Maestro di Calanda per fare a
pezzi, con beffarda lucidità, la classe borghese. Tra invenzioni mirabili,
surrealismo tagliente, genio visionario e profondità di analisi, l’autore
realizza un ritratto impietoso e spietato, in forma onirica, della borghesia
europea, enfattizzandone i vizi e deformandone gli abusi sotto la lente
sardonica del grottesco. Ed ecco quindi personaggi bizzarri, improbabili quanto
emblematici (clero, politica, esercito, polizia), che ci appaiono come alieni,
parassiti, inetti, paraventi di un mondo vacuo costruito sull’apparenza,
sull’avere, sulla ripetizione infinita dei propri assurdi rituali, volti a
soddisfare il proprio edonismo e a mantenere in vita questo status di
privilegio il più a lungo possibile. Fuori dalla realtà, dai problemi della
gente e da ogni contesto storico, queste figure amorfe si muovono, subdole e
indolenti, senza mai riuscire a raggiungere il loro scopo, seppur semplice (la
cena), per simboleggiare l’impotenza e l’inutilità di una classe tanto boriosa
quanto inerte. La celebre ironia spiazzante di Buñuel diventa qui graffiante
parodia, dal retrogusto amarissimo, con intento iconoclasta verso i fondamenti
istituzionali del capitalismo, finendo per criticare, attraverso una gustosa
messa alla berlina, non solo una classe ma anche tutti quei processi, sociali e
storici, che portano alla formazione di esse, creando così delle barriere,
invisibili ma insormontabili, tra gli esseri umani. E’ uno dei capolavori
assoluti dell’autore iberico, per molti il migliore, di sicuro il più
rappresentativo, per la perfetta sintesi tra il suo straripante estro
immaginario e l’efficacia polemica della denuncia sociale, che lo eleva come un
simbolo solenne della sua estetica. Attraverso il meccanismo opprimente della
ripetizione, che sfianca ma ipnotizza lo spettatore, il regista ci immerge in
questo mondo, assurdo e parallelo, di dialoghi inconsistenti, di estasi
reciproca, di conformismo spudorato, di autocelebrazione delirante, di
moralismo impenitente, il tutto condito con una rarefatta leggerezza dei toni
che costituisce, indubbiamente, la virtù maggiore dell’opera. L’elemento
surreale, che qui appare sempre in forma di imprevisto, non stravolge nè
perturba l’apparente immobilità dei protagonisti, non ne cambia le abitudini,
ma, semplicemente, le rimanda, in un’ironica e sempiterna reiterazione
dell’effimero rituale. Da questa insensata spirale tragicomica riluce tutto il
vuoto di una classe priva della percezione di sé, in distonia con il mondo,
invischiata intorno al proprio ego, senza meta (la strada desolata di campagna)
e senza scopo. Questo sprezzante apologo antiborghese, che ne deride
goliardicamente uno dei cardini sacrali, la riunione a tavola, luogo archetipo
di convenevoli, ipocrisia e sfoggio, utilizza il sogno (quello, a turno, dei
protagonisti) per mostrarcene il vero volto, nell’unico “luogo” in cui ogni
maschera sociale cade inesorabilmente. E se ne L’angelo
sterminatore l’incompiutezza, ovvero il non riuscire mai a
raggiungere l’intento desiderato, portava ad una caduta nei propri bassi
istinti, qui, invece, produce un ulteriore accrescimento di atteggiamento
parassitario, come se il reiterarsi della posizione sociale borghese derivasse
dalla mancanza d’azione più che dall’azione. Tutto questo per sottolinearci,
secondo la visione dell’autore, l’inerzia della classe presa a bersaglio, per
la quale il “fascino” del titolo è, ovviamente, solo la burla suprema del
grande vecchio di Calanda. Nella scena degli scarafaggi che escono dal
pianoforte, il regista cita se stesso ed il suo celebre manifesto del
surrealismo cinematografico, Un chien andalou.
Fu premiato con l’Oscar al miglior film straniero, ma Buñuel, come prevedibile,
non presenziò alla cerimonia e non ritirò il premio.
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