Il detective Philip Marlowe viene
contattato dal suo amico Terry Lennox, che gli chiede di condurlo da Los
Angeles al confine messicano per sfuggire a dei misteriosi inseguitori. Poco dopo
Marlowe viene a sapere che la moglie di Terry, Sylvia, è stata uccisa e che il
suo amico si è tolto la vita in Messico. Preso in carico un nuovo caso,
ritrovare uno scrittore alcolizzato scomparso nel nulla da diversi giorni, Marlowe
scoprirà una serie di inquietanti sviluppi sulla vicenda dei Lennox, mentre un
pericoloso gangster gli dà la caccia, convinto che questi abbia ricevuto una
grossa somma dal suo amico Terry. Adattamento “infedele”, ma memorabile,
dell’omonimo libro di Raymond Chandler, padre del romanzo nero americano e
fondatore del genere “hard boiled”
insieme a Dashiell Hammett. “Il lungo
addio” è unanimemente considerato il miglior romanzo di Chandler, perché fortemente
sentito, struggente, pervaso di suggestioni personali e profondamente
accattivante nell’intreccio giallo. Dopo il rifiuto di Howard Hawks, che di
Chandler aveva già diretto “Il grande
sonno”, il film passò nelle mani di Robert Altman, che ci ha regalato una
versione superba, eversiva, di profonda rottura con la tradizione del noir,
apportando diversi cambiamenti rispetto al testo letterario. Innanzi tutto il
grande regista di Kansas City sceglie di traslare l’ambientazione temporale,
attualizzandola agli anni ’70, e rinuncia del tutto alle atmosfere buie, ai
locali fumosi, ai contrasti in chiaro scuro, per offrirci un noir luminoso,
solare, con la fotografia dai toni caldi, con molte scene diurne che si
svolgono all’aperto, addirittura sulla spiaggia e con l’oceano in bella vista.
Anche la connotazione di un personaggio iconico come Marlowe, la celebre
“creatura” chandleriana alla sua ottava apparizione sul grande schermo, assume
caratteristiche nuove, a cominciare dalla scelta dell’attore, un Elliott Gould
in una fase di stanca della sua carriera. Il Marlowe di Altman è un antieroe
dimesso, malinconico, cupo, stanco, alla ricerca disperata di un senso non solo
professionale ma, soprattutto, esistenziale. Altri cambiamenti importanti riguardano
la trama, in particolare il finale, profondamente diverso rispetto
all’originale, giudicato da Altman troppo fiacco, in favore di un doppio colpo
di scena che osa l’inosabile (la vendetta del detective, il perdente per
eccellenza secondo i dogmi dell’hard boiled) ed ammicca all’epilogo de Il
terzo uomo di Carol Reed. Alla sua uscita il film fu un flop al
botteghino e fece storcere il naso ai critici che giudicarono ingenerosa la
“distruzione” di un personaggio iconico come Marlowe, in quella che definirono
una sorta di satira crudele nei confronti di un genere nobile come il poliziesco
nero. Ma il tempo ha permesso un giudizio più obiettivo e distaccato, e quasi
tutti oggi convengono nel definire questo nero d’autore come un capolavoro del
regista. Il senso del “tradimento” altmaniano, che non a caso si rispecchia
nella trama che verte esattamente su questo tema, è perfettamente coerente con
la sua carriera, costantemente volta alla sagace revisione iconoclasta dei
generi e degli stereotipi hollywoodiani inerenti ad essi. Una revisione
irriverente, ardita, spesso geniale, inquadrabile in quelle correnti autoriali
d’avanguardia che hanno profondamente cambiato il linguaggio cinematografico
negli anni ’60 e ’70, regalandoci capolavori inestimabili. Ma alla base del
“tradimento” al noir perpetrato in questo film c’è un topos più profondo di natura esistenziale: l’alienazione, ovvero
quel generale senso di smarrimento che investì le nuove generazione americane
dopo la caduta delle utopie liberali del ’68, lo scandalo del Watergate e la
guerra in Vietnam. L’alienazione è un tema cruciale, e ricorrente, nel cinema
d’essai degli anni ’70 che ha dato vita a personaggi emblematici e memorabili
come il Travis Bickle di Taxi
Driver o l’Harry
Caul de La
conversazione, figure tragiche e decadenti, messe ai margini dal loro stesso
disagio interiore, che poi è lo stesso che anima il Marlowe di Altman. Questo
noir rarefatto, spigoloso e rivoluzionario, è anche il migliore dell’età
moderna, insieme al Chinatown di
Roman Polanski, che, pur scegliendo di guardare ai classici, è ugualmente
monumentale. Si dovranno attendere registi come Lynch, Friedkin o i fratelli
Coen per trovare un’altra rivoluzione per il genere noir di pari spessore
artistico e di analoga portata sintattica. Dunque il “tradimento” di Altman è
scientifico, perché critica volutamente i dogmi della vecchia Hollywood con la
sua ironia pungente e riformista, ed è anche romantico, perché, pur rinnegando
gli stilemi nella forma, li riconferma nella sostanza, creando un contrasto
stridente, ma splendido, tra la solarità degli ambienti e l’anima nera delle
situazioni trattate. Il lungo addio del romanzo di Chandler è quello al
personaggio di Philip Marlowe, che esce di scena definitivamente con questo
libro; invece nel film potrebbe tranquillamente riferirsi a tutto il genere
noir secondo la concezione tradizionale, di cui questa sontuosa release altmaniana costituisce un punto
di rottura definitivo, non indolore ma geniale, necessario, inevitabile, proprio
come un addio. E finiamo con una curiosità: nel film compare, non accreditato,
un giovanissimo, ma già fisicamente esplosivo, Arnold Schwarzenegger nel ruolo
della guardia del corpo del gangster Augustine.
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