Charlie Tatum è un giornalista senza
scrupoli, alla disperata ricerca di uno scoop che possa risollevarne la
carriera in declino. L’occasione arriva quando un malcapitato, Leo Mimosa,
resta bloccato in una grotta per colpa di una frana. Il diabolico reporter
mette in piedi una perfida macchinazione per ritardare i soccorsi,
assicurandosi il colpo giornalistico con la massima visibilità possibile.
Divenuto amico di Mimosa, usa la situazione a suo vantaggio per garantirsi la
gestione completa delle operazioni mediatiche e diventa persino l’amante della
subdola moglie. Finale tragico. Tra i tanti capolavori di Wilder questo è,
senza dubbio, il più cinico, il più amaro ed il più spietato, con uno dei
cattivi più spregevoli in assoluto della storia del cinema hollywoodiano.
Interpretato dal divo Kirk Douglas, la cui carriera ebbe un non casuale stallo
dopo questo ruolo controverso, il luciferino Charlie Tatum generò sconcerto nel
pubblico, fece infuriare l’opinione pubblica e determinò il flop commerciale
della pellicola, indubbiamente troppo dura per la società statunitense
dell’epoca, vessata dallo spettro del maccartismo e intimorita dall’incubo
della guerra atomica. Eppure l’esperto Douglas fece di tutto per convincere il
grande regista a rivedere qualcosa, a smussare qualche angolo, per rendere il
suo protagonista un po’ meno odioso, ma Wilder, lungimirante come tutti i geni,
aveva le idee chiare e non arretrò di un passo. Il tempo gli ha dato ragione,
consentendo la meritata rivalutazione di questo melodramma nero, senza
speranza, senza morale, senza rimorso, senza redenzione, che non dà tregua allo
spettatore e quasi lo attanaglia nella sua cruda analisi sociale. Il film si
erge, con largo anticipo sui tempi ma con lucido senso critico e con profetica
precisione, a sinistro apologo della spietatezza cinica dei mass media,
disposti a tutto in nome dell’audience. Ma l’accusa dell’autore non si rivolge
solo al giornalismo scandalistico d’assalto, e a quegli imbonitori mediatici
disposti a vendere l’anima al diavolo in nome del successo personale, ma anche
al pubblico credulone, morboso, che si rende complice di questo perverso
meccanismo che spettacolarizza il dolore infischiandosene della vittime, e,
quindi, parimenti colpevole. Il dark side
del sogno americano ci viene, quindi, svelato in tutta la sua abominevole
potenza: la società dello spettacolo infame che, sotto l’egida del diritto di
cronaca, prolifera sul sangue e sulla dignità delle povere vittime. Altro
aspetto non meno importante della requisitoria di Wilder, è il denaro visto
come controvalore della vita umana e come motore supremo della società moderna.
L’altra faccia del regista, quella iconoclasta, sempre ben mascherata sotto la sua
tagliente satira sardonica, trova supremo compimento in questo film
rivelazione, duro ma ineccepibile nella sua spietata analisi antropologica, che
seppe cogliere per primo i venti di quella crisi morale, collegata ai mezzi
d’informazione e al loro nefasto potere coercitivo, che poi esploderà vent’anni
dopo. Questo film magistrale è fondamentale, e fondante, per tutta la
cinematografia successiva sui lati oscuri del “quinto potere”, un assoluto antesignano
d’autore. Visto l’insuccesso della pellicola la produzione provò a mescolare le
carte, cambiando il titolo in The Big
Carnival, ma senza alcun risultato concreto. Kirk Douglas, nonostante il
disagio, fornì comunque un’interpretazione eccellente, rendendo il suo
personaggio un villain di memorabile
statura malvagia, un monumento alla disumanità che solo il boicottaggio
generale dell’opera non ha reso di pubblico dominio.
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