Nick Longhetti, italoamericano, lavora
come capocantiere ed è sposato con Mabel, casalinga, con cui ha tre figli. I
suoi stressanti ritmi lavorativi lo tengono spesso lontano da casa ma, anche
quando è presente, appare nervoso e intrattabile. Mabel, psicologicamente
fragile, finisce in clinica per esaurimento nervoso. Ne esce dopo sei mesi ma,
una volta fuori, le dinamiche scatenanti si ripetono e lei non trova più la
forza e il coraggio per affrontare la vita quotidiana. Intenso dramma familiare
che mostra, con il realismo scarno tipico dell’autore, le lacerazioni di una
coppia dall’interno. Consumati dalla routine, Nick e Mabel si scontrano fino
alla sfinimento in un quotidiano gioco al massacro: stressato lui, depressa
lei. Bravissimi gli attori protagonisti, Peter Falk e Gena Rowlands, moglie del
regista e candidata all’Oscar per questo ruolo di struggente carica drammatica.
Gli estenuanti dialoghi della coppia, spesso improvvisati, sono di ammirevole
forza realistica. Cassavetes porta in scena la vita vera, con un’ottica
femminista nella sua accezione più nobile e rigorosa, senza mai indulgere in
scene madri o derive patetiche, ma con una puntigliosa sensibilità del tocco.
E’, in assoluto, uno dei migliori esempi cinematografici sul tema delle nevrosi
matrimoniali, al punto che alcuni hanno scomodato paragoni eccellenti con il
cinema di Bergman. E’ anche una storia d’amore ardente e disperata, che viaggia
in bilico sull’orlo della follia, ma non per questo meno appassionante,
specialmente nella capacità, tipica del regista, di garantire un rigoroso
livello di profondità interiore, uno scandaglio affilato della psicologia dei
personaggi, un trionfo di realistica umanità. Tutte le emozioni principali sono
costruite sul magnifico volto espressivo della Rowlands, dal suo sguardo
riusciamo a leggere amore, odio, disperazione, sconforto, speranza. Anche stavolta
troviamo la conferma di un’altra caratteristica del cinema di Cassavetes: la
magistrale capacità nella direzione degli attori, concedendo anche il giusto
spazio d’improvvisazione, e garantendo sempre l’assoluta adesione al
personaggio. Quest’opera costituisce l’ideale punto di arrivo, anche in termini
di amarezza, della tetralogia dell’autore sull’alienazione della middle class americana, dopo Volti (1968), Mariti (1970) e Minnie e
Moskowitz (1972). E’ anche uno dei suoi lavori più maturi ed equilibrati,
in cui la capacità di celare l’arte tra le pieghe delle inquadrature diventa
solenne elegia antropocentrica, sincera, lucida, delicata, il cui fine è sempre
quello di rappresentare la vita, la grande avventura dello spirito umano. Da
non perdere e da vedere in lingua originale.
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