Un
regista, Friedrich Munro, e la sua troupe si trovano in un albergo abbandonato
in Portogallo, di fronte all’oceano, dove stanno girando un film di
fantascienza apocalittico. Ma i fondi finiscono e la lavorazione deve essere
interrotta, in attesa del produttore che sembra sparito. Munro parte allora per
Los Angeles alla sua ricerca, ma scopre che questi vive nascosto in un camper
perché braccato da una gang di gangster a cui ha chiesto denaro in prestito.
Formidabile riflessione, in due parti, sul cinema e sul suo destino, che si
erge, con raffinata autorevolezza ed ammirevole rigore, come un lucido ed amaro
resoconto per fare il punto della situazione e stabilire, come da titolo, lo “stato
delle cose” della settima arte. Il sofisticato Wenders ci regala, con quest’opera
astratta in bianco e nero, il suo capolavoro ed il suo bilancio, in perdita, su
dove sta andando il cinema moderno, attraverso la contrapposizione tra quello
europeo (più intimo e concettuale) e quello americano (più rapido e
spettacolare). Va però detto che, tale
contrapposizione, è solamente il livello di lettura più evidente di una
pellicola profondamente complessa, densa di temi, rimandi e significati. Nella
prima parte, che fa un potente utilizzo del metacinema attraverso il film nel
film, ovvero la pellicola di fantascienza che si sta girando e che porta il
metaforico titolo di “The survivors” (“I sopravvissuti”), l’autore ci metta davanti
alla noia della vita, all’attesa inerte, alla spossante malinconia che ne
deriva, o meglio alla saudade, quella
della troupe che aspetta, nella decadente cornice di un albergo in rovina posto
in una location mozzafiato, il proprio destino. Malgrado la voluta ed
opprimente lentezza di questo segmento, di cui molti si sono inopinatamente
lamentati, la sua bellezza formale, il suo fascino ermetico e le possenti
simbologie sottese sono indubbie, quanto fervide e numerose. I sopravvissuti
del film nel film sono una proiezione del regista Munro/Wenders e della sua
crew, sono i fantasmi alienati di un mondo, quello cinematografico, che va alla
deriva, per la difficoltà di conciliare l’arte con la sostanza, l’intenzione
con il risultato, il genio con i costi, la forma con il contenuto, l’idea con il
prodotto. Tutta la prima parte è una funerea metafora del processo alla base
della creazione e della realizzazione di un’opera cinematografica, del transfert
tra autore e attore, personaggio e persona, finzione e realtà. La posizione
dell’albergo, sulla propaggine più estrema dell’Europa in quell’oceano,
Atlantico, che la separa dal nuovo mondo, non è casuale ma anch’essa allegoria
di quello “scontro”, ideologico e culturale, tra due concezioni
cinematografiche così diverse, ma complementari per necessità: quella del
vecchio continente, di cui Munro/Wenders è paladino e “sopravvissuto”, e quella
statunitense. Ma lo “scontro”, che diventa anche tentativo di reciproco
accrescimento attraverso l’assorbimento, quasi osmotico, delle rispettive
qualità, piuttosto che mero rimpianto meditabondo, è, soprattutto, quello tra
il cinema classico e quello moderno, come espresso chiaramente nella parte
seconda, in particolare nel pungente dialogo tra regista e produttore. Quando Munro parte alla sua ricerca, e lo
scenario si sposta in California, tutto cambia: il ritmo sale, le atmosfere si
dilatano e, tra strade, grattacieli, automobili e stelle sull’asfalto, il film
si consegna all’azione, al dinamismo, ma anche alla morte, evidenziando, senza
mezzi termini, il pensiero dell’autore sull’esito filosofico della disputa. Il
finale, da antologia, ci regala immagini straordinarie ed una densità
metaforica mai più raggiunta, a questi livelli, dal regista tedesco: il cinema
è vita, il cinema è morte, ma è anche la speranza suprema e l’utopia solenne
per opporsi ad essa (Munro che punta la macchina da presa verso i killer, ma
senza riprenderli) in un gioco crudele, ed illusorio, di attese e sospensioni,
ricerche ed inganni. E il cinema, l’arte, non saranno mai definitivamente perduti,
fino a quando ci sarà qualche “sopravvissuto” che lotterà per essi, perché la
macchina da presa, anche se caduta, anche se di sbieco, anche se da sola,
continua a filmare. Nonostante tutto.
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