venerdì 9 gennaio 2015

Lo stato delle cose (Der Stand der Dinge, 1982) di Wim Wenders

Un regista, Friedrich Munro, e la sua troupe si trovano in un albergo abbandonato in Portogallo, di fronte all’oceano, dove stanno girando un film di fantascienza apocalittico. Ma i fondi finiscono e la lavorazione deve essere interrotta, in attesa del produttore che sembra sparito. Munro parte allora per Los Angeles alla sua ricerca, ma scopre che questi vive nascosto in un camper perché braccato da una gang di gangster a cui ha chiesto denaro in prestito. Formidabile riflessione, in due parti, sul cinema e sul suo destino, che si erge, con raffinata autorevolezza ed ammirevole rigore, come un lucido ed amaro resoconto per fare il punto della situazione e stabilire, come da titolo, lo “stato delle cose” della settima arte. Il sofisticato Wenders ci regala, con quest’opera astratta in bianco e nero, il suo capolavoro ed il suo bilancio, in perdita, su dove sta andando il cinema moderno, attraverso la contrapposizione tra quello europeo (più intimo e concettuale) e quello americano (più rapido e spettacolare). Va però detto che, tale  contrapposizione, è solamente il livello di lettura più evidente di una pellicola profondamente complessa, densa di temi, rimandi e significati. Nella prima parte, che fa un potente utilizzo del metacinema attraverso il film nel film, ovvero la pellicola di fantascienza che si sta girando e che porta il metaforico titolo di “The survivors” (“I sopravvissuti”), l’autore ci metta davanti alla noia della vita, all’attesa inerte, alla spossante malinconia che ne deriva, o meglio alla saudade, quella della troupe che aspetta, nella decadente cornice di un albergo in rovina posto in una location mozzafiato, il proprio destino. Malgrado la voluta ed opprimente lentezza di questo segmento, di cui molti si sono inopinatamente lamentati, la sua bellezza formale, il suo fascino ermetico e le possenti simbologie sottese sono indubbie, quanto fervide e numerose. I sopravvissuti del film nel film sono una proiezione del regista Munro/Wenders e della sua crew, sono i fantasmi alienati di un mondo, quello cinematografico, che va alla deriva, per la difficoltà di conciliare l’arte con la sostanza, l’intenzione con il risultato, il genio con i costi, la forma con il contenuto, l’idea con il prodotto. Tutta la prima parte è una funerea metafora del processo alla base della creazione e della realizzazione di un’opera cinematografica, del transfert tra autore e attore, personaggio e persona, finzione e realtà. La posizione dell’albergo, sulla propaggine più estrema dell’Europa in quell’oceano, Atlantico, che la separa dal nuovo mondo, non è casuale ma anch’essa allegoria di quello “scontro”, ideologico e culturale, tra due concezioni cinematografiche così diverse, ma complementari per necessità: quella del vecchio continente, di cui Munro/Wenders è paladino e “sopravvissuto”, e quella statunitense. Ma lo “scontro”, che diventa anche tentativo di reciproco accrescimento attraverso l’assorbimento, quasi osmotico, delle rispettive qualità, piuttosto che mero rimpianto meditabondo, è, soprattutto, quello tra il cinema classico e quello moderno, come espresso chiaramente nella parte seconda, in particolare nel pungente dialogo tra regista e produttore.  Quando Munro parte alla sua ricerca, e lo scenario si sposta in California, tutto cambia: il ritmo sale, le atmosfere si dilatano e, tra strade, grattacieli, automobili e stelle sull’asfalto, il film si consegna all’azione, al dinamismo, ma anche alla morte, evidenziando, senza mezzi termini, il pensiero dell’autore sull’esito filosofico della disputa. Il finale, da antologia, ci regala immagini straordinarie ed una densità metaforica mai più raggiunta, a questi livelli, dal regista tedesco: il cinema è vita, il cinema è morte, ma è anche la speranza suprema e l’utopia solenne per opporsi ad essa (Munro che punta la macchina da presa verso i killer, ma senza riprenderli) in un gioco crudele, ed illusorio, di attese e sospensioni, ricerche ed inganni. E il cinema, l’arte, non saranno mai definitivamente perduti, fino a quando ci sarà qualche “sopravvissuto” che lotterà per essi, perché la macchina da presa, anche se caduta, anche se di sbieco, anche se da sola, continua a filmare. Nonostante tutto.

Voto:
voto: 5/5

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