venerdì 20 agosto 2021

La donna che canta (Incendies, 2010) di Denis Villeneuve

Dopo la morte di Nawal, madre anaffettiva di origini mediorientali emigrata in Canada, i suoi due figli gemelli Jeanne e Simon apprendono dal suo testamento una sconcertante notizia: il padre, che credevano morto in guerra e che non hanno mai conosciuto, è ancora vivo e i due giovani hanno anche un fratello di cui ignoravano l'esistenza. Per ritrovarli e consegnare ad entrambi una lettera secondo le disposizioni di Nawal, i due dovranno recarsi nella sua terra d'origine, quel Medio Oriente perennemente sconvolto da atavici conflitti, lotte intestine e divisioni secolari, scavare nel tremendo passato della donna e ricomporre le tessere di un doloroso mosaico che li metterà di fronte ad una agghiacciante verità. Il quarto lungometraggio del canadese Denis Villeneuve, tratto dall'opera teatrale "Incendies" di Wajdi Mouawad, è un cupo e tormentato film dimostrativo, una tragedia greca nel senso più classico del termine che procede, attraverso una struttura di flashback non lineari, come un'indagine analitica ineluttabile nella persecuzione della sua tesi. Il regista utilizza la metafora della matematica (incognite, teoremi, equazioni) per supportare con un metodo terribilmente logico la ricerca della verità attraverso l'esplorazione di traumi indicibili, dolori inconfessabili, il peso di quel male che gli uomini fanno ad altri uomini e che l'inconscio sceglie inevitabilmente di rimuovere, come meccanismo ancestrale di autodifesa. Questo viaggio nel passato e nella memoria di una donna (Nawal) e di un mondo (un brutale paese mediorientale, mai esplicitamente nominato, ma chiaramente riconducibile al Libano durante la terribile guerra civile tra cristiani e musulmani) porterà i suoi due figli a guardare negli occhi il Male, a visitare gli abissi più oscuri dell'animo umano, per arrivare ad una straziante catarsi nello sconvolgente finale a sorpresa, espressa teoricamente dal paradosso aritmetico secondo cui 1 + 1 può anche essere uguale ad 1. L'autore è particolarmente abile a disseminare qua e là indizi pregnanti (a cominciare dal prologo) e giustamente pietoso nel lasciare fuori fuoco le più atroci scene di violenze, perchè il senso dell'opera risiede nell'intimo e non nell'esplicito. Affascinante la sovrapposizione narrativa tra la vita passata di Nawal e quella contemporanea di Jeanne che, durante la sua ricerca, ripercorre 30 anni dopo le stesse strade, visita gli stessi luoghi, raddoppiando certe parti del racconto, ma non per ridondanza quanto per incisività. Qualche forzatura teatrale e qualche inverosimiglianza sono peccati veniali, resi "necessari" dalla programmatica progressione geometrica che fa convergere i diversi segmenti della vicenda verso l'emblematico epilogo, di grande potenza drammaturgica. Il film ha riscosso un vasto consenso di critica, rivelando al mondo il talento di Villeneuve e aprendogli definitivamente le porte di Hollywood, ed ha ottenuto la prestigiosa nomination agli Oscar 2011 come migliore pellicola straniera. Nel cast svettano le due magnifiche interpreti femminili: Lubna Azabal e Mélissa Désormeaux-Poulin. La traduzione italiana del titolo, per quanto coerente con una parte cruciale dalla storia, si allontana dalla più sottile valenza dell'originale. Da vedere evitando accuratamente ogni sorta di spoiler.
 
Voto:
voto: 4/5

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