Sarah Mandy, giovane archeologa americana in trasferta a Roma, è testimone del ritrovamento di un'antica urna funeraria che reca dei simboli oscuri, la cui apertura farà piombare sulla capitale una terribile malia: orribili presagi, delitti macabri, segni inequivocabili di una forza diabolica che è stata risvegliata. Sarah capisce che tutto è collegato alla vecchia leggenda occulta delle tre madri, tre streghe infernali che per secoli hanno perpetrato il male, ciascuna da una diversa città nel mondo, nelle dimora costruite per loro dall'architetto Varelli. Quella che ha scatenato la sua ira su Roma è la Mater Lacrimarum, l'unica sopravvissuta delle tre, la più bella e la più sanguinaria, disposta a tutto per vendicare le sue "sorelle", portando morte e distruzione. Sarah scopre di essere connessa a vari livelli con questa storia, tramite degli eventi del suo passato di cui non era a conoscenza, e che la sua presenza a Roma potrebbe non essere casuale. Dopo quasi 30 anni da Suspiria (1977) e Inferno (1980), Dario Argento chiude la trilogia sul mito horror delle tre madri con questo ultimo capitolo, anacronistico, caotico e fuori tempo massimo, in cui l'autore conferma la sua crisi creativa e la sua mancanza di idee originali, una situazione impietosamente evidente già da lungo tempo. La terza madre è un film confuso e claudicante, un horror con suggestioni esoteriche che abbonda di sequenze visivamente feroci (la crudeltà morbosa dei delitti raggiunge picchi di efferatezza estrema anche per uno come Argento) e di clamorosi scivoloni nel greve, nel patetico, nel trash o addirittura nel ridicolo. Impossibile non menzionare, al riguardo, l'arrivo delle streghe nella capitale italiana, il sabba finale o l'effetto goffo del "fantasma" interpretato da Daria Nicolodi, nell'ultima apparizione cinematografica della sua carriera. I consueti dialoghi risibili, le svolte narrative tagliate con l'accetta e la recitazione imbambolata degli attori (a cominciare dalla protagonista Asia Argento, figlia del regista) fanno il resto. L'israeliana Moran Atias è tanto bella quanto incongrua nei panni di Mater Lacrimarum. Lo schema del racconto è molto simile a quello di Inferno (1980), ma privo dei lampi inventivi, delle magie stilistiche e dell'oscura carica visionaria che, un tempo, erano abituali nelle opere di Dario Argento. Le musiche sono firmate dal "fedelissimo" Claudio Simonetti, leader del gruppo rock progressivo dei "Goblin".
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