Nel 1939 la nobildonna inglese Sarah lascia Londra alla volta di Darwin (Australia) per riportare a casa suo marito, Lord Ashley, proprietario di un ranch agli antipodi. Accompagnata nel faticoso viaggio dal rozzo Drover, rude mandriano dal cuore buono, scopre con disappunto che il suo consorte è defunto e la fattoria versa in stato di degrado. L'inattesa rivelazione dello spirito selvaggio e ancestrale di una terra bellissima e difficile ed il tenero incontro con un orfano aborigeno di padre britannico, fanno scattare qualcosa nel suo animo di donna capricciosa e sofisticata. Con l'aiuto di Drover, di uno stregone indigeno, del piccolo aborigeno e di uno strambo ragioniere, Sarah decide di restare e di salvare ciò che resta della sua proprietà, guidando la propria mandria di bovini in un lungo viaggio attraverso il deserto australiano pieno di pericoli, non solo naturali. Il quarto lungometraggio di Baz Luhrmann è un ambizioso melodramma fiammeggiante con struttura da "kolossal" che vuol essere, simultaneamente, una grande favola romantica, un racconto epico, un inno d'amore alla magia della sua terra, un affresco storico idealizzato, una metafora di libertà e di tolleranza, una celebrazione dei sacrosanti valori atavici dei nativi ed una parabola anti-colonialista di matrice languida. C'è, insomma, tanto, anzi troppo in questo film visivamente grandioso e stilisticamente patinato (è stata la più costosa pellicola australiana mai realizzata) in cui lo squilibrio tra contenuto e forma è impietosamente evidente. I troppi temi trattati (a cominciare da quello, poco conosciuto in Europa, della così detta "generazione rubata", ovvero le migliaia di bambini meticci che in quel periodo vennero strappati dalle famiglie indigene per essere affidati alle "cure" dei bianchi e cresciuti con la loro "educazione" a discapito della cultura di appartenenza) vengono affrontati in modo banale, frettoloso e superficiale. Spesso appena accennati, altre volte risolti con fastidioso buonismo o con dozzinale semplicismo, alla maniera tipicamente hollywoodiana, come se si trattasse di un peso da togliersi in modo sbrigativo per alleggerirsi la coscienza o di una spettacolarizzazione sentimentale dai fini retorici. Tra molti eccessi, molta enfasi, molti passaggi bruschi o leziosi, questo colosso dai piedi d'argilla è stracolmo dei pregi e dei difetti del cinema di Luhrmann, di cui costituisce (soprattutto in negativo) la quintessenza. Nel grande cast di autoctoni trapiantati a Hollywood (Nicole Kidman, Hugh Jackman, David Wenham, Bryan Brown) è proprio la celebre diva a convincere di meno, confermando la sua parabola discendente già iniziata da qualche anno. Un Hugh Jackman selvaggio e straripante di virilità è, invece, perfetto per il ruolo. Il film (che è anche infarcito di patriottismo a buon mercato) fu una delusione, sia al botteghino, sia nei giudizi della critica, sia nella stagione dei premi, dove venne praticamente ignorato.
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