domenica 4 gennaio 2015

Dillinger è morto (Dillinger è morto, 1969) di Marco Ferreri

Un industriale benestante torna a casa dal lavoro ma si ritrova a girare a vuoto tra strade anonime tutte uguali ed oggetti surreali. Nel suo appartamento trova una pistola, avvolta in un foglio di giornale, su cui campeggia la notizia dell’uccisione del gangster John Dillinger. Quasi rapito dalla scoperta, l’uomo prima cerca di copulare con la domestica, poi tenta il suicidio ed infine uccide la moglie, nel sonno, con l’arma trovata. Senza provare alcun rimorso scappa via, imbarcandosi su un battello che fa rotta verso isole tropicali, ma che naviga verso un sole palesemente finto, come a dire che non esiste possibilità di fuga. Marco Ferreri, genio controverso e “scandaloso” del nostro cinema d’autore, voce perennemente dissonante ma di straordinaria sensibilità artistica, ha raggiunto la notorietà internazionale con questo film dissacrante e “maledetto”, di cui molti criticarono l’inaudita violenza concettuale senza sforzarsi, però, di leggerne le ragioni. Capolavoro grottesco di caustica ferocia ed altissimo spessore metaforico, è una delle opere migliori dell’autore milanese ed uno dei film fondamentali nel rinnovamento del cinema italiano che ebbe luogo, tra gli anni ’60 e ’70, grazie ad autori come Ferreri, Pasolini, Antonioni, Bertolucci. Tra straniamenti onirici ed ellissi paradossali, il regista disegna, con geometrica precisione ed ineluttabile perfidia, una spietata critica alla borghesia, al consumismo, alla società del “benessere”, alla perdita di senso, di valori e di idee prodotte dall’annichilimento delle coscienze che inseguono una felicità edonistica basata sui beni materiali, sul possesso e sull’apparire. Come sempre in Ferreri tutto è dilatato, distorto sotto la lente del grottesco, che deforma ogni cosa per restituircela come simbolo, provocazione, sensazione, che intende stimolare la pancia più che la mente. Sebbene sia un’opera altamente sperimentale per stile e messa in scena, garantisce una coerenza tematica ed un rigore analitico che lasciano ammirati, pur obbedendo ad una chiara impostazione “a tesi”. Tra surrealismo ed avanguardia, Pirandello e Flaubert, pessimismo e disincanto, feticismo e dannazione, quest’opera di rottura è una delle più lucide e spiazzanti apologie sull’alienazione nella società borghese mai viste al cinema, come solo autori alla stregua di Antonioni e Buñuel han saputo realizzare con pari efficacia. In questa colta apocalisse esistenziale, rassegnata e visionaria, spiccano, nel cast, i francesi Michel Piccoli e Annie Girardot.

Voto:
voto: 5/5

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