mercoledì 22 settembre 2021

Flags of Our Fathers (2006) di Clint Eastwood

Tra il 19 febbraio e il 26 marzo del 1945, durante la così detta guerra del Pacifico tra Stati Uniti e Giappone, si combatté la furiosa battaglia di Iwo Jima, isola vulcanica che si trova a circa mille chilometri di mare da Tokyo e da tutti ritenuta una fortezza inespugnabile dell'Impero del Sol Levante. Il lungo e sanguinoso scontro lasciò sul campo circa 26mila vittime, di cui 20mila giapponesi e 6mila marines americani. Il 25 febbraio 6 marines si inerpicarono sul monte Suribachi, il vulcano spento che domina l'isola, per issare (due volte) una bandiera americana sulla sua cima. Quell'immagine venne immortalata da un foto, divenuta poi leggendaria, scattata dal fotoreporter Joe Rosenthal, premiato successivamente con il Premio Pulitzer. La foto di Rosenthal, da cui prende le mosse questo film, divenne una delle istantanee più celebri della seconda guerra mondiale, nonché icona della imminente vittoria americana. Viene naturale pensare che solo un autore originale, intelligente, saggiamente illuminato e fieramente repubblicano come Clint Eastwood, l'ultimo regista classico del cinema americano, potesse girare un film di questo tipo, un war-movie biografico unico nel suo genere, fedele ai fatti reali, minuzioso nella ricostruzione storico-politica, ombroso nei toni, sobrio nell'enfasi, amaramente critico nella parte finale, celebrativo ma non retorico, nostalgico ma non lacrimoso, volutamente soggettivo in quanto pensato come parte di un progetto più ampio (insieme alla sua pellicola "gemella" e speculare uscita pochi mesi dopo) con l'ambizioso intento di raccontare la battaglia di Iwo Jima (momento topico della guerra del Pacifico) da due punti di vista opposti: prima nell'ottica dei vittoriosi americani (in questa prima parte) e poi dalla prospettiva degli sconfitti giapponesi (nella seconda, Lettere da Iwo Jima (Letters from Iwo Jima, 2006)). La scelta del racconto in (doppia) soggettiva, libera l'autore dal fardello dell'equanimità (automaticamente garantita dall'opera complessiva che consta di due film a specchio) e gli permette di concentrarsi sulle sfumature, sugli aspetti in penombra, sul senso recondito di scelte, gesti o azioni che cambiano la storia e avranno impatti non immaginabili sul futuro. Flags of Our Fathers è un film corale, cupo, denso e solido, percorso da un sottile filo malinconico che tiene insieme idealmente le tre parti a incastro in cui è diviso. Nella prima ci viene mostrato l'oggi, ovvero il presente degli anziani sopravvissuti tra i 6 immortalati nel celebre scatto fotografico, ormai dimenticati e immersi in una grigia esistenza di routine. La seconda tranche è la cruenta battaglia, con i 35 giorni di combattimenti raccontati dalla prospettiva dei marines. L'ultima (la più importante per il regista) è la storia del circo mediatico che coinvolse i 3 superstiti (tra cui l'indiano Ira Hayes), lanciandoli in una tournée di propaganda mediatica attraverso gli USA per usarli come simbolo di vittoria e raccogliere fondi da proventi di donazioni per finanziare la costosa macchina bellica. E' in questo segmento conclusivo che il repubblicano Eastwood mette in atto una lucida riflessione critica contro l'ipocrisia della guerra spettacolo e contro l'insensata retorica faziosa dei politicanti che ridussero i 3 "eroi per caso" a meri fenomeni da baraccone, per dare in pasto al popolo esattamente quello che si aspettava di sentire e occultando le verità "sconvenienti". Senza alcun livore ma con fermezza, Eastwood affonda lentamente la lama nella falsità demagogica dei politicanti di turno e nell'estrema ingiustizia della guerra, riecheggiando il doloroso messaggio del cinema di Samuel Fuller, secondo cui "in guerra non esistono eroi, ma soltanto sopravvissuti". Prodotto da Steven Spielberg e ispirato al libro omonimo di James Bradley (figlio di John "Doc" Bradley, l'infermiere marinaio che faceva parte dei 6 protagonisti dell'alzabandiera), questo struggente dramma bellico sembra quasi modellato sui toni della mesta ballata che, nel 1964, il cantautore Johnny Cash dedicò alla vita del pellerossa Ira Hayes: simbolo dei reietti gettati nel mattatoio per difendere gli interessi di un paese che non li ha mai riconosciuti, poi strumentalizzato in maniera grottesca per fini divulgativi e infine nuovamente dimenticato nel ghetto degli emarginati.

Voto:
voto: 4/5

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