lunedì 20 settembre 2021

Un altro giro (Druk, 2020) di Thomas Vinterberg

Martin è un insegnante di storia in una scuola superiore che si ritrova a ripensare alla sua vita e si rende conto di essere diventato spento, apatico, noioso, depresso, non più capace di vivere i rapporti con gli altri con il giusto entusiasmo. Insieme a tre colleghi, amici di lungo corso, decide di sperimentare la teoria di uno psichiatra norvegese, che sostiene che ogni uomo dovrebbe avere un tasso di alcool giornaliero nel sangue pari a 0,05% per poter vivere appieno la propria vita. I quattro iniziano a bere ogni giorno fin dalla mattina, in modo da risultare sempre moderatamente alcolizzati. L'esperimento funziona egregiamente per tutti, ciascuno di loro si sente più sicuro, meno stressato, con una maggiore carica vitale ed una più efficiente resa nei rapporti umani e professionali. Martin ritrova stimoli ed entusiasmi che aveva perduto da tempo e anche la sua vita matrimoniale, da troppi anni arenata in una grigia routine, subisce una positiva impennata. Ma ben presto il gioco diventa pericoloso, i quattro amici si fanno prendere la mano ed iniziano ad aumentare costantemente le dosi alcoliche assunte, mettendo a rischio ogni cosa, oltre ogni ragionevole previsione. Il 12-esimo lungometraggio del danese Thomas Vinterberg, scritto dal regista insieme a Tobias Lindholm, è stato un grande successo di critica fin dal momento della sua uscita, in cui però non ha mancato di suscitare polemiche da parte dei soliti benpensanti per il delicato argomento trattato. Da un lato ha ottenuto consensi unanimi dalla stampa specializzata e dagli addetti ai lavori (persino il nostro Paolo Sorrentino ha voluto chiamare personalmente il bravo autore di Copenaghen per complimentarsi con lui ed esprimergli tutto il suo entusiasmo), ed è stato premiato dall'Academy con l'Oscar al miglior film straniero (più una nomination a Vinterberg come miglior regista), dall'altro ha accesso dibattiti in merito al suo contenuto "diseducativo", ricevendo accuse di apparire come un elogio delle sbronze e un invito esplicito a ubriacarsi per stare "meglio". Premettendo che, con una lettura superficiale o tendenziosa dell'opera, il rischio esiste (soprattutto per i più giovani) e che l'alcolismo è, purtroppo, una grave piaga sociale contro cui i paesi del Nord Europa si trovano da sempre a combattere, bisogna anche fare alcuni doverosi ragionamenti. Innanzi tutto l'arte (e quindi anche il cinema) è, per definizione stessa, un'attività teoretica libera, pura espressione dello spirito e personale visione del suo autore, quindi non deve essere necessariamente pedagogica (questo gravoso compito spetta a ben altre istituzioni sociali). In secondo luogo Druk è un film adulto e per adulti, ovvero destinato, per molte ragioni, ad un pubblico adatto a recepirlo pienamente e nel modo giusto (già solo per affinità anagrafica, esperienze di vita e possibilità di immedesimazione nelle dinamiche esistenziali descritte), sapendo leggere oltre la patina ma nelle pieghe psicologiche del racconto (che sono molteplici e non banali). Va poi ricordato che Vinterberg, nella sua descrizione distaccata e mai giudicante dei diversi aspetti dell'alcolismo, ne mostra in egual misura sia gli aspetti "benefici" che quelli deleteri, degradanti e tragici, con un atteggiamento equanime e al di sopra di ogni sospetto. E infine: è assolutamente superficiale liquidare quest'opera come apologia dei beoni, visto che trattasi di un affresco amaro, sincero, dolente, intimo, politicamente scorretto, non consolatorio e non pacificato della crisi di mezza età. E' un film sul disagio interiore, sulla difficoltà di invecchiare, sulla fame (anzi sulla sete) disperata di vivere, sul fallimento, sull'irrazionale istinto di sopravvivenza, sulla ricerca del piacere, sul cupio dissolvi che alberga nell'inconscio di ogni essere umano e, in antitesi, sulla voglia ancestrale di liberazione del proprio animo (e del proprio corpo) dalle "catene" oppressive (sociali, culturali, religiose, familiari, emotive) che ciascuno di noi avverte in diverse maniere e a diversi livelli. In tal senso va letto l'evocativo (e memorabile) tripudio del finale, follemente gioioso. Straordinaria interpretazione del protagonista Mads Mikkelsen, in quella che sarà probabilmente la performance della vita, ma anche il resto del cast (Thomas Bo Larsen, Magnus Millang, Lars Ranthe, Maria Bonnevie) è su un livello eccellente. Il taglio di alcune sequenze, che a molti hanno ricordato il cinema spudoratamente indipendente di John Cassavetes, non è casuale, ma un omaggio (per ammissione stessa di Vinterberg) al grande autore newyorkese, uno dei padri dell'avanguardia cinematografica d'oltre oceano. Altri elementi da rimarcare sono: il forte senso identitario della pellicola (nel corso della quale, attraverso le canzoni, ci viene ricordato più volte che ci troviamo in Danimarca), e la netta linea di demarcazione che viene tracciata tra il mondo maschile e quello femminile. In questo film di complice e insana amicizia virile le donne si trovano ben al di fuori dallo "steccato" di reciproche affinità edificato dai quattro compagni di bevute: sono aliene, lontane, eppure incombenti, a metà strada tra l'elemento di disturbo, la voce della coscienza e lo specchio opposto della propria frustrazione.
 
Voto:
voto: 4/5

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