giovedì 9 settembre 2021

Il fiore delle mille e una notte (1974) di Pier Paolo Pasolini

Dopo Boccaccio e Chaucer, Pier Paolo Pasolini decide di adattare la leggendaria raccolta di racconti orientali "Le mille e una notte", scritta da vari autori di molteplici paesi arabi e in epoche diverse. Questo film è il capitolo conclusivo della sua "trilogia della vita", che chiude idealmente il cerchio del suo discorso teorico sulla ricerca di un'umanità pura, istintiva, libera e anticonformista, estranea all'omologazione della morale, dei costumi e del pensiero imposta dal consumismo e dalla religione. Questa sua indagine, iniziata nelle polverose borgate del sottoproletariato romano, si è poi estesa, nei primi due capitoli della "trilogia della vita", ad un passato storico letterario intriso di malinconica nostalgia, più idealizzato e vagheggiato che descritto con realismo. In questo terzo film l'analisi pasoliniana guarda ad Oriente, ovvero verso paesi quasi immuni al "virus" del capitalismo, evidentemente mitizzati nella loro dimensione fiabesca ereditata dal racconto ispiratore, carichi di un fascino ancestrale che li rende emotivamente vicini al mondo della tragedia greca (già ampiamente esplorato dal regista poeta, che pure aveva mostrato un ampio interesse documentaristico nei riguardi della realtà sociale del Terzo Mondo in Appunti per un'Orestiade africana del 1970). E le forti componenti erotiche che caratterizzano l'intera trilogia assumono una valenza politica di trasgressione intesa come atto rivoluzionario, un grido di libertà e di vitalità individuale in opposizione al livellamento conformista imposto dai grandi poteri. Così il sesso in tutte le sue forme (persino quelle pedofile) diventa un gioioso atto di rivolta privata e la nudità uno stato naturale di libertà assoluta, intimamente puro, ma "scandaloso" per i benpensanti, ovvero per l'apparato ideologico del potere omologante. Profondamente pessimista rispetto alla storia e alla natura umana, Pasolini ritiene che solo nell'Arte (in questo caso il cinema) si possa ottenere la piena attuazione del suo messaggio politico, inesorabilmente scomodo ma anche lucido, lungimirante, stupefacente nella sua ricchezza di sfumature e di contrasti. E dopo queste doverose considerazioni di carattere generale (estendibili, a livelli diversi, a tutti i capitoli della "trilogia della vita", anzi all'intera opera pasoliniana), torniamo a focalizzarci su questo film di chiusura: ambientato in un'Arabia primigenia, carica di suggestioni fantastiche e di fascinazioni esotiche, attinge liberamente all'enorme materiale narrativo originale, eliminando del tutto il filo conduttore della voluttuosa narratrice (Sheherazade) e focalizzandosi solo su alcune novelle della raccolta. Inizialmente Pasolini aveva scritto il film, insieme a Dacia Maraini, prevedendo una struttura rigida composta da 3 atti, ognuno dei quali suddiviso in 4 capitoli più un prologo. Questo notevole lavoro, filologicamente impeccabile, fu poi totalmente stravolto durante le riprese (che ebbero luogo tra Yemen, Etiopia, Iran, India e Nepal), secondo un modo di fare non inedito per il regista, che spesso preferiva abbracciare uno stile diretto, spontaneo, immediato, quasi improvvisato, preferendo l'autenticità del gesto al rigore della parola scritta. Il risultato è un'opera completamente diversa dall'idea iniziale (di cui gli interessati potranno comunque godere leggendo le pubblicazioni della sceneggiatura originale), un racconto più libero e audace, intriso di favolismo onirico e di morbido erotismo, con un impianto narrativo a scatole cinesi che prevede una vicenda principale (quella degli amanti perduti Nur-er-Din e Zumurrud) e 4 sotto-storie innestate attraverso il racconto che uno dei personaggi fa ad un altro ("Il poeta Sium e i tre giovani", "Il re Harún, la regina Zeudi e la giovane coppia", "la storia di Dúnya e Tagi" e "la storia di Tagi e Aziz"). Sotto la forza motrice (e primordiale) del sesso e l'ombra nascosta della morte sempre in agguato, quest'opera-epilogo è più rasserenata, fatalista, epica e definitiva delle due precedenti, più libera di spiccare il volo perchè meno condizionata dall'ossessione (tipica del regista) di confrontarsi, a livello teorico, con il potere e con la storia, a causa della matrice fiabesca ed esotica, del tutto aliena rispetto alla realtà europea. Dal punto di vista visivo la pellicola è uno dei vertici assoluti del cinema pasoliniano, anche se alcuni vi hanno riscontrato un tono generalmente algido, opulento nella forma ma distante nella materia. E' anche il più complesso tra i capitoli della trilogia, non a caso fu nettamente quello di minor successo al botteghino. Nel cast, oltre ai "fedelissimi" Ninetto Davoli e Franco Citti, citiamo Franco Merli, Ines Pellegrini, Tessa Bouché e Luigina Rocchi. Anche in questo caso fu presentato in anteprima ad un importante festival europeo (Cannes), nella sua edizione integrale di 155 minuti, dove ricevette il Premio Speciale della Giuria. La versione che uscì successivamente in sala, dopo le consuete traversie giudiziarie per le accuse di "oscenità", fu ridotta a 125 minuti e vietata ai minori di 18 anni. L'unica nota stonata è la discutibile scelta fatta da Pasolini di far doppiare i personaggi in un pittoresco dialetto salentino, che lui riteneva, come sonorità, il più simile alle lingue arabe. Il risultato è straniante.
 
La frase: "La verità non è in un solo sogno, ma in molti sogni"

Voto:
voto: 4/5

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