Adattando il libro "I giorni dell'ira. Il caso Moro senza censure" di Robert Katz, che ha collaborato anche alla sceneggiatura, il regista toscano Giuseppe Ferrara porta sul grande schermo i 55 giorni del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. 55 giorni tragici e indimenticabili che tennero l'Italia con il fiato sospeso dal 16 marzo 1978, quando un commando delle Brigate Rosse attaccò in via Fani il corteo di auto che trasportavano il presidente, uccidendo a colpi di mitra i 5 uomini della scorta e rapendo l'onorevole Moro, fino al 9 maggio 1978, quando il corpo senza vita del politico fu ritrovato, ucciso da una raffica di mitraglietta, nel bagagliaio di una Renault 4 in via Caetani, in pieno centro di Roma. In mezzo alle due date fatali, i lunghi giorni del terrore, della speranza, dello sconforto, delle indagini, delle false piste, delle lettere anonime, dei comunicati dei brigatisti, della drammatica trattativa con lo stato, degli appelli del Papa, della maggioranza parlamentare divisa, dei sospetti di collusioni tra i terroristi e poteri istituzionali segreti. 55 giorni indimenticabili, forse i più drammatici della nostra storia moderna, in cui le Brigate Rosse toccarono l'apice della loro nefasta "grandezza", mai la lotta eversiva aveva osato e compiuto tanto, portando il suo attacco al cuore dello stato, ma decretando, con quell'atto infame, un punto di non ritorno: l'inizio irreversibile del loro declino, perchè da quel momento iniziarono a perdere il consenso da parte dei militanti di sinistra non violenti che ne appoggiavano ideologicamente la causa, pur non approvandone i metodi. Iniziò quindi un inarrestabile scollamento politico tra le BR e il popolo che questi millantavano di rappresentare. Il delitto Moro segnò, quindi, l'inizio della fine del terrorismo rosso in Italia, e anche degli anni di piombo. Il film, diretto con efficacia, cupo realismo, dolente partecipazione emotiva e profonda indignazione morale, è un buon documento di cronaca per chi volesse "rivivere" (o conoscere qualcosa) di quei tragici giorni. Sufficientemente neutrale per almeno tre quarti della sua durata, si sbilancia nella parte finale, pur restando sempre totalmente dalla parte del "martire" Moro, abbracciando la tesi (da molti sostenuta) della fredda decisione della ragion di stato di abbandonare il presidente al suo destino, per necessità strategiche, per non piegarsi al ricatto dei criminali, per opportunismo politico o per obbedire ad un oscuro disegno complottistico che avrebbe addirittura deciso di giustiziare Moro, utilizzando i brigatisti come burattini inconsapevoli, per impedire l'avanzata dei comunisti al governo. Tutte le teorie sorte intorno al "caso Moro" sono ben note a chi ha vissuto quegli anni e sono state ampiamente sviscerate nei processi ad Andreotti o nei vari reportage giornalistici, senza peraltro mai arrivare ad una risposta definitiva o ad una condanna giudiziaria per i presunti "grandi burattinai", manipolatori nell'ombra, implicati nella losca faccenda. Il film suggerisce una direzione, ma non entra nei dettagli investigativi della vicenda, indicando però in modo inequivocabile gli alti esponenti della DC come coloro che scelsero di abbandonare Moro, rimettendo la sua vita alla decisione finale dei carcerieri. Interpretato con commovente adesione e straordinaria mimesi da un magistrale Gian Maria Volonté (premiato come migliore attore al Festival di Berlino), l'Aldo Moro della pellicola è l'immagine nobile e tragica di un paese che va incontro al suo destino con la sofferenza dell'innocente, lo smarrimento dell'ingiustizia subita e la fierezza di chi sa di aver dato tutto ciò che poteva alla causa per cui ha lottato e per cui è morto. Notevole anche la prova di Mattia Sbragia nel ruolo del leader del commando terrorista (Mario Moretti), anche se il suo nome esplicito non viene mai fatto. Volonté, che aveva già interpretato una figura chiaramente ispirata a Moro nel surreale dramma satirico distopico Todo Modo (1976) di Elio Petri, s'innamorò a tal punto del personaggio dopo questo film da difendere a spada tratta tutte le scelte fatte dal regista (e da lui appoggiate), in risposta alle polemiche rivoltegli dalla DC dopo l'uscita in sala della pellicola. Fu particolarmente criticata la scelta (evidentemente romanzata e mai supportata da prove, anzi quasi sicuramente falsa) che i terroristi si mostrassero fin da subito a volto scoperto al presidente Moro durante i lunghi colloqui (il così detto "processo del popolo") nei giorni del sequestro. Secondo i politici democristiani, questa decisione di sceneggiatura era un chiaro intento del regista di alludere al fatto che Moro fosse già condannato a morte fin dal primo giorno e che dietro a questa decisione ci fossero proprio i vertici del suo stesso partito, probabilmente supportati dai servizi segreti americani che intendevano mettere fine al "compromesso storico", bloccando così l'avvento dei comunisti al governo. Un altro aspetto totalmente inventato per fini drammaturgici è la visita del prete Don Stefani ad Aldo Moro nella "prigione del popolo", un espediente indubbiamente effettistico (e totalmente fasullo), volto ad aumentare il pathos tragico della storia. Una menzione per le belle musiche di Pino Donaggio, come sempre molto pertinenti all'atmosfera dell'opera. E' un film teso e doloroso, che ancora oggi fa discutere, essendo il caso Moro sempre aperto, come una ferita che non può mai essere del tutto rimarginata.
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