Palermo, 1936, durante il regime fascista. Tommaso Scalia, impiegato presso una organizzazione sindacale, uccide con sconcertante freddezza tre persone nella stessa giornata: il suo ex datore di lavoro che lo aveva licenziato, un collega che ha preso il suo posto e infine sua moglie, dopo averla violentata. Secondo la legge vigente Scalia va condannato alla pena di morte per fucilazione, ma Vito Di Francesco, un giudice zelante, liberale e moralmente contrario al concetto stesso di pena capitale, si mette contro tutti e inizia a indagare attivamente sul caso, alla ricerca di attenuanti. Dalla sua parte troverà solo un giurato, un mite agricoltore di scarsa cultura ma dall'animo gentile. Di Francesco scoprirà una serie di scomode verità sulla vita di Scalia, che tuttavia sembra desiderare lui stesso la morte, fedele ai suoi principi violenti. Splendido dramma giudiziario di Gianni Amelio, che ha adattato con lucido rigore e fertile ambiguità tematica il romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, dando vita ad un sottile apologo politico sul tema della pena di morte, ma anche sul valore universale (e supremo) del concetto di giustizia e sulle subdole ingerenze del potere nelle questioni processuali. Grandiosa ricostruzione d'epoca, perfette atmosfere ambientali che rievocano il clima ideologicamente soffocante di quegli anni oscuri e sontuosa interpretazione degli attori principali, tra cui spiccano un magistrale Gian Maria Volonté, intenso e misurato, ed un sorprendente Ennio Fantastichini. Il film suscitò gli entusiasmi (meritatissimi) della critica e vinse numerosi premi, tra cui 4 David di Donatello, la Grolla d'Oro per la regia, l'Oscar europeo e fu candidato agli Oscar hollywoodiani, entrando nella cinquina finale per il miglior film straniero (vinto però dall'ottimo rappresentante della Svizzera, Viaggio della speranza di Xavier Koller). Questa pellicola è senza dubbio uno dei più felici adattamenti cinematografici tratti dalle opere di Sciascia. Il titolo si riferisce alla celebre locuzione, nata dalla propaganda del regime fascista, secondo cui in quegli anni la pubblica sicurezza garantita dal potere era tale che si poteva dormire con le "porte aperte".
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