Il piccolo Apu è il figlio minore di una poverissima famiglia bengalese agli inizi del '900. Suo padre è disoccupato e non riesce a trovare un lavoro duraturo per sfamare i suoi figli, che vivono di stenti e umiliazioni nella miseria più nera. La prima figlia, Durga, bambina di 6 anni, è costretta a rubare dei frutti nelle piantagioni dei vicini per non morire di fame. Un giorno un monsone devastante spazza via il villaggio e provoca nuove tragedie sulla sfortunata famiglia. Dopo questa ulteriore terribile prova, il padre di Apu si decide ad emigrare altrove, in cerca di una vita migliore. Straordinario esordio cinematografico del maestro Satyajit Ray, con questo doloroso dramma naturalistico che denuncia, senza retorica, senza pietismi gratuiti e senza effettismi lacrimevoli, le disumane condizioni di vita dei villaggi bengalesi. E' il primo film di una trilogia neorealista di cronaca familiare, seguito da Aparajito (1956) e Il mondo di Apu (1959). E' il capolavoro del regista e una delle sue opere più famose e celebrate, che alla sua uscita fu duramente osteggiato dal governo locale, che lo accusò di portare in scena un ritratto esageratamente negativo della povertà indiana, per scopi politici di natura sediziosa. E, a proposito di neorealismo, è impossibile non collegare questa vicenda a quella analoga di Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica, che venne duramente attaccato dalla Democrazia Cristiana per presunto populismo antigovernativo. Girato con pochi mezzi, molte idee e un rigore espressivo di ammirevole lucidità, è una commovente elegia poetica che eleva l'odissea quotidiana dei suoi umili disperati protagonisti in una dimensione mitica di tragico spessore e di eroica dignità. Attraverso lo sguardo puro del piccolo Apu, l'autore riesce a suscitare l'indignazione dello spettatore, eseguire una denuncia sociale impietosa e trasfigurare la sofferenze di un popolo in potente epica drammatica, che ritrae la "nobiltà" della miseria. Asciutto e sommesso, privo di strepiti e di livori strumentali, è una preghiera laica dal senso universale sul valore della resilienza, sulla forza della vita e sul decoro della natura umana. La sua limpida grandezza si evince anche dalla sua capacità immediata di stabilire una reale connessione emotiva con il pubblico di ogni latitudine, incantato dalla disarmante poesia e dalla sottile tenerezza dell'opera. In particolare il grande regista John Huston, che in quel periodo si trovava in India per visionare possibili location del suo film L'uomo che volle farsi re (che vedrà definitivamente la luce solo nel 1975), fu così colpito dal lavoro di Ray e dalla sua capacità di trasformare una storia così semplice in un affresco così potente, che offrì la sua spontanea collaborazione all'autore indiano. E, al suo ritorno in America, fece una tale promozione del film da aumentarne a dismisura la visibilità, fino a renderlo un grande successo, replicato per sei mesi consecutivi al Moma di New York. Il grande valore artistico dell'opera e gli ottimi riscontri di critica ottenuti in occidente, aprirono la strada ai due capitoli successivi, portando Aparajito alla vittoria del Leone d'Oro al Festival di Venezia e consacrando Satyajit Ray come autore di spessore internazionale.
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