Questo è uno dei suoi film più famosi, soprattutto per le ardite e
pretenziose tecniche registiche utilizzate, sebbene non venga
generalmente annoverato tra i suoi capolavori. Come già accaduto con il
precedente "Prigionieri dell’oceano" ("Lifeboat", 1944), che si svolge
su una scialuppa in mare, Hitchcock sceglie di ambientare l’intera
pellicola in un unico ambiente (una stanza, stavolta), rispettando
l’omonima piéce teatrale ispiratrice ("Rope" di Patrick Hamilton, a sua volta liberamente ispirata ad un reale fatto di cronaca nera). Ma le aspirazioni tecniche e stilistiche del grande regista vanno ben
oltre l’unità di luogo: egli, come rimarcato anche da Truffaut, intende
rispettare anche le unità di tempo e di azione (i famosi tre canoni
della poetica aristotelica) facendo così coincidere, durante la
narrazione, il tempo reale a quello cinematografico. In pratica l’azione
che avviene nella finzione (tra le 19.30 e le 21.15 di una stessa
giornata) si sovrappone esattamente con il tempo reale durante le
riprese. Per ottenere questo, Hitchcock decise di girare il film in un
unico e continuo piano sequenza e con audio in presa diretta, portando
così alla massima esasperazione artistica la tecnica registica divenuta
famosa grazie all’uso rivoluzionario di Orson Welles nel capolavoro
assoluto "Quarto Potere" ("Citizen Kane", 1941). Questo fatto implicò l’abolizione completa del montaggio. Il geniale
regista inglese dovette ricorrere a diversi espedienti per riuscire in
questa ambiziosa "sfida": infatti, all’epoca, una bobina poteva
contenere al più 10 minuti di pellicola e quindi, per consentire i cambi
di rullo, Hitchcock ricorre ad effetti simili a dissolvenze, come
zoomare su un oggetto a sfondo scuro o far passare qualcuno con una
giacca nera davanti all’obiettivo, prima di ricollegarsi al rullo
successivo. Questi espedienti visivi danno l’idea del continuo temporale
ambito dal regista, anche se, per i limiti tecnici degli anni ’40, la
pellicola venne di fatto girata in 10/11 piani sequenza effettivi. Questo originale ed assolutamente unico cimento tecnico registico (per
alcuni un trionfo di stile, per altri un inutile ed artificioso vezzo
narcisistico) è il principale motivo per cui il film è diventato famoso,
passando, ovviamente, alla storia. Bisogna dire, invero, che non tutte
le transizioni sono perfettamente riuscite (specialmente guardando il
film oggi) e che, a volte, la tecnica usata danneggia alcuni dialoghi ed
inficia l’illuminazione della scena. Proprio quello delle luci fu il
problema maggiore della sfida registica voluta da Hitchcock: infatti, in
diverse scene, la luce reale del momento non era adatta alle esigenze
tecniche della sequenza e questo costrinse a rigirarle in un momento più
appropriato. L’effetto finale è comunque soddisfacente, considerando che il film ha
60 anni, e l’intento, nonché lo sforzo eseguito, sono ammirevoli. Per
riprendere il film Hitchcock utilizzò un Dolly montato su rotaie (perché
la tecnica adottata necessitava di grande mobilità della camera) e, con
l’ingegnoso ed artigianale sistema degli "stacchi" detto prima, riuscì
ad ottenere la sensazione del continuo temporale. Al di là delle capriole registiche, il film contiene molti elementi
tipici del regista quali il delitto visto come "atto estetico" fine a se
stesso per infrangere la banalità del quotidiano, il vagheggiamento del
crimine perfetto e, soprattutto, il voyeurismo. A un certo livello,
l’intera concezione dell’opera come flusso temporale ininterrotto di 80’
può essere letta come un immenso atto voyeuristico compiuto dall’autore
(che consiste nell’osservare l’azione senza mai staccare o interrompere
lo sguardo). Già dalla prima inquadratura il film ha la chiarissima
impronta stilistica del "mago del brivido": esso si apre con una vista
panoramica della città, per poi puntare su una finestra, scostarne
idealmente le tende chiuse per mostrarci l’interno della stanza che sarà
teatro dell’azione (già qui con un chiarissimo atto di voyeurismo di
cui Hitchcock ci rende complici). Nella stanza assistiamo alla parte
finale del delitto, commesso da Brandon Shaw e Philip Morgan ai danni
dell’amico David, utilizzando la corda del titolo originale. Il corpo di
David viene poi nascosto in una cassapanca che fungerà da macabro
tavolo per le vivande nella festa che si svolgerà in quella stanza di lì
a poco. Fin dall’inizio si capisce che siamo di fronte ad un giallo
atipico: infatti, già dalla prima scena ci vengono svelati gli assassini
e sappiamo dove viene nascosta la vittima. Ciò stabilisce una singolare
ed atipica "complicità" tra lo spettatore ed i colpevoli del delitto,
non priva di suggestioni morbose, e costruisce un meccanismo ardito di
suspense inversa, perché siamo noi gli unici a conoscere la verità, pur
non potendola rivelare ai personaggi che vediamo interagire con i
colpevoli. Il senso dell’intreccio giallo diventa quindi non più
scoprire chi è l’assassino, ma se questo riuscirà a farla franca e chi
riuscirà, eventualmente, a scoprire dove è nascosto lo scomparso David. Le personalità dei due assassini si rivelano molto presto: Brandon (John
Dall) è quello con l’ego maggiore, è cinico, elegante, presuntuoso ed
espone le sue deliranti teorie ("l’omicidio è un’arte per pochi eletti")
con assoluto fanatismo. Philip (Farley Granger) è invece l’anello
debole della catena, ansioso, insicuro, chiaramente soggiogato dalla
personalità del complice: dimostra fin da subito di avere paura del
terribile atto commesso e spesso non riesce a celare il suo nervosismo, a
differenza di Brandon che vuole invece quasi sfidare il destino per
auto compiacersi ed alimentare il proprio ego. In questa estetica del
delitto senza alcun movente, ma come mero atto gratuito di compiacimento
e di autoaffermazione, molti hanno voluto vedere influenze delle teorie
superomistiche di Nietzsche e di quella ideologia nazista da cui il
mondo si era appena liberato. Alcuni dettagli, svelati dal regista in
modo estremamente morigerato (visti i tempi), inducono a supporre una
relazione omosessuale tra Brandon e Philip, il che spiegherebbe molto
meglio il rapporto morboso che si evince dai loro dialoghi. Alla festa
che si terrà di lì a poco, con la cassapanca sempre al centro della
scena, partecipa anche il professor Rupert Cadell (un James Stewart un
po’ meno brillante del solito), uomo di grande intuito ed intelligenza,
nonché vecchio mentore di Brandon. Il film ha una struttura chiaramente
teatrale ed è consigliatissimo a chi ama pellicole di questo tipo: i
dialoghi sono brillanti e spesso con tocchi di quell’impagabile humour
macabro in cui Hitchcock era maestro. Lo sfrontato Brandon mette in atto
un perverso gioco intellettuale con il suo ex professore: da un lato
sembra quasi sfidarlo a svelare il delitto, dall’altro pare cercarne
l’approvazione ed il consenso per aver compiuto un atto che sancisce
così palesamente la sua “superiorità”. E nello sferzante dialogo tra
Brandon e Cadell, tra battute pungenti e declamazioni fanatiche, si
intuisce anche una vaga eco di responsabilità del professore sulla
formazione delle teorie deliranti del giovane Shaw. La tensione è
mantenuta costante grazie al pungente dialogo tra i due uomini, a cui si
alternano le preoccupazioni per il mancato arrivo di David da parte del
padre o della ragazza Janet. E mentre Philip, sempre più a disagio, si
rifugia nell’alcol e sembra spesso sul punto di vacillare, l’arguto
professore, insospettito dall’assenza di David, ma anche intimorito
dalla spavalda esibizione di ego di Brandon, pare quasi "ritrattare" e
cercare una giustificazione alle sue antiche teorie filosofiche,
definendole come mere elucubrazioni teoriche. In questa concessione
buonista, probabilmente dovuta per i tempi, il film perde però un
tantino di forza drammaturgica e la tensione sembra allentarsi. Hitchcock però ci regala, da par suo, alcuni momenti memorabili che
regalano autentica suspense: come la governante, inquadrata in primo
piano per tutta la scena, che sparecchia la tavola-bara e vuole poi
mettere dei libri nella cassapanca dopo averla liberata dall'ingombro.
Ma anche quando il prof. Cadell trova il cappello dello scomparso David e
legge le iniziali su di esso, mentre una voce fuori campo nomina
casualmente il cognome del padre del ragazzo. Insomma la tensione regge
ed il film avvince, sia per la maestria di Hitchcock che per la bontà
dei dialoghi. Una pellicola rivoluzionaria e non da tutti amata allo
stesso modo, sicuramente non è il miglior film di Hitchcock ma è
veramente innovativo (per stile e tecnica) e di grandissimo fascino
estetico. E' uno dei miei preferiti del grande maestro inglese.
Assolutamente da riscoprire.
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