Nel 1956 il Maestro inglese realizza la sua opera più atipica, "Il ladro",
un film ispirato a un fatto realmente accaduto, girato in bianco e nero
con uno stile così rigoroso ed austero da richiamare quello di Bresson.
La storia di un innocente, scambiato per un rapinatore e come tale
perseguito, non ha stavolta nulla delle romanzesche peripezie dei
precedenti film con al centro una situazione simile. Qui il
protagonista, attonito e sgomento, ha i comportamenti dell’uomo comune
incapace di ribellarsi a un destino imperscrutabile, che distrugge la
sua vita (e quella della moglie). E’ la situazione de "Il processo"
di Kafka, ma Hitchcock la sviluppa senza i toni visionari dello
scrittore (né quelli allucinatori della successiva versione
cinematografica di Welles), che non gli sono congeniali. Il suo film è
dominato da una concezione "religiosa" della "colpa" di vivere, e
condotto con implacabile razionalità, un incubo lucido e perciò tanto
più inquietante, risolto alla fine dal ricorso a una sorta di intervento
della "provvidenza" (splendida la sequenza del protagonista, cattolico
come il regista, che prega, mentre, in sovrimpressione, il vero
colpevole viene arrestato). Ricco di altri momenti memorabili (come
quando la moglie, ormai sulle soglie della follia, colpisce il
protagonista, rompendo lo specchio nel quale la scena era ripresa), è un
film che non fu capito né dalla critica né dal pubblico, disorientati
dall’improvviso mutamento di registro, ma assolutamente da collocare tra
le opere migliori, e comunque più alte, di un autore molto più
complesso della sua immagine "ufficiale". E' un film da riscoprire e da
rivalutare, con un ottimo Henry Fonda (in tono dimesso) e per questo ho deciso di proporlo.
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