Nel 1980, dopo 5 anni di assenza dal grande schermo, Stanley Kubrick si
cimenta in un altro genere cinematografico: l’horror. Siamo nel periodo
d’oro del grande regista che ha dato vita ad un irripetibile “filotto”
con tre capolavori consecutivi come “2001: Odissea nello spazio”,
“Arancia meccanica” e “Barry Lindon”. Il suo ritorno alla ribalta
avviene con l’adattamento del terzo romanzo del maestro dell’horror
Stephen King, “The Shining”, pubblicato nel 1977. Ma Kubrick non era
certo un regista tale da accettare passivamente un soggetto nella sua
interezza senza reinterpretarlo a modo suo, filtrandolo attraverso la
sua sensibilità artistica fino ad imporre la sua visione e la sua
ossessione del “controllo”. In modo particolare su “Shining”,
egli scorse delle prospettive diverse dall’autore del romanzo, e, pur
rispettando in buona parte lo spirito del libro, apportò dei cambiamenti
davvero importanti, accantonando molte cose presenti nel racconto di
King, ma soprattutto aggiungendo dei rilevanti cambiamenti a certe parti
della storia. Il risultato finale di questa rilettura personale è una
storia angosciosa e inquietante che sembra più interessata ai risvolti
psicologici della mente umana, che alla materia horror paranormale
(sebbene questa sia comunque presente). La cosa fece infuriare non poco
Stephen King, che disconobbe pubblicamente il film come adattamento del
suo romanzo ed entrò in aperta polemica con il regista. Al di là di
ogni disputa letteraria, “Shining” resta un capolavoro horror,
sebbene inferiore alle opere maggiori del grande regista americano. Il
film è diviso in diverse unità narrative temporali: “Il colloquio”, “Chiusura invernale”, “Un mese dopo”, “Martedì”, “Sabato”, “Lunedì”, “Mercoledì”, “ore 16”. Queste
sezioni sono consecutive dal punto di vista cronologico (a meno di una
singolare eccezione costituita dall’ultima) ma non contigue e di
lunghezza sempre diversa. L’ultima tranche , e in particolare il finale
del film, sovvertono la regola della “normale” consecutio, tramite un
effetto circolare già utilizzato da Kubrick nel maestoso finale di
“2001”. Come al solito stile, tecnica e regia sono su livelli eccelsi:
indimenticabili le disturbanti riprese angolate o il brillante uso della
Steadycam per fornire la prospettiva del piccolo Danny che gira sul
triciclo nei corridoi dell’Overlook Hotel. Anche la recitazione,
titanico Jack Nicholson ma molto brava anche Shelley Duvall, è di
altissimo livello. Kubrick, che era perennemente interessato all’uomo,
come elemento centrale di ogni sua opera, predilige lo scandaglio
psicologico e l’esplorazione della mente, disturbata, del protagonista,
piuttosto che l’elemento soprannaturale, trasformando il tutto, ad un
certo livello, in un dramma di follia domestica, pervaso dalla consueta
misantropia tipica dell’autore. Ma lo stile glaciale ed asettico,
anch’esso tipicamente kubrickiano, poco si addice ad un horror ed
infatti il film ne risente dal punto di vista emozionale. E’, dunque,
un horror atipico, e unico nel suo genere; di altissimo livello ed
imperdibile, come tutte le opere dell’autore.
Voto:
Nessun commento:
Posta un commento