Jeffrey “Drugo” Lebowski è un ex hippie pacifista, pigro,
trasandato e indolente che affronta la vita con flemmatica leggerezza
tra partite a bowling con i suoi bizzarri amici, robusti drink a base di
White Russian e fumate di marijuana. Per un caso di omonimia con un
ricco magnate invalido, dalla moglie giovane, bella e lasciva, si trova
coinvolto, suo malgrado, in rocambolesche vicende, tra rapimenti,
riscatti, personaggi grotteschi, nichilisti, artisti squinternati e
pornografi. Ma il “Drugo” affronterà le pericolose e surreali situazioni a modo suo, con l’aiuto dei suoi maldestri compari. “Il grande Lebowski” è un'irresistibile, brillante, scoppiettante ed irriverente parodia del noir hard boiled, creato da Dashiell Hammett e Raymond Chandler negli anni '20 e '30 del secolo scorso, con lo svogliato ed obnubilato “Drugo”
in luogo di Sam Spade o di Marlowe. Tutti gli ingredienti del genere
sono infatti presenti: un uomo ricco e potente che incarica un detective
di una missione pericolosa, la dark lady fascinosa ed enigmatica, una
galleria di figuri loschi, ambigui e poco rassicuranti, l’ambientazione
metropolitana (Los Angeles) ed una trama complessa, densa di intrecci e
di tranelli, con continui colpi di scena sempre dietro l’angolo. Questi
elementi, tipici del noir americano classico, vengono abilmente
rimescolati e reinterpretati con uno stile frizzante e scanzonato, che
si compiace apertamente del suo non prendersi mai sul serio, con
un'ironia pungente e disarmante, dando a vita ad una memorabile serie di
situazioni eccentriche, personaggi grotteschi e memorabili dialoghi
nonsense. Magistralmente diretto dai geniali fratelli Coen,
questa pellicola ha definitivamente consacrato i due fratelli di
Minneapolis come cineasti di prima grandezza, ed è per molti (compreso
il sottoscritto) il loro film migliore. Autori intelligenti, irriverenti
e sofisticati, da sempre devoti alla libertà espressiva del cinema
indipendente americano piuttosto che alla politica di appiattimento
creativo delle grandi major, i Coen realizzano, con quest’opera, il loro
primo film apertamente comico, dopo l’energica “follia” di “Arizona
Junior” (1987). Ma i due fratelli lo fanno, ovviamente, alla loro
maniera, utilizzando tutti gli stereotipi dei generi e dei modelli a
loro cari, come il noir, il gangster movie, la contro cultura anni ’60,
il musical e persino il western, centrifugandoli con un'ironia ricercata
e caricaturale, a tratti davvero travolgente. Il risultato è un cult
assoluto, con un cast straordinario ed una galleria di personaggi e
situazioni che sono entrati, a pieno diritto, nell'immaginario
collettivo. Tutto ruota intorno alla figura centrale di Jeffrey Lebowski (un
Jeff Bridges amabile e sornione), che ci viene subito presentato come
l’uomo più pigro ed indolente della “città degli angeli”. Egli è un
individuo di mezza età, sciatto, immaturo, con poca voglia di lavorare,
nostalgico pacifista ex “figlio dei fiori”, che trascorre le sue
giornate ciondolando in bermuda ed accappatoio e consumando droghe
leggere e cocktail white russian. Da tutti conosciuto come “The Dude” (maldestramente tradotto in italiano come “il drugo”),
egli è l’antieroe per eccellenza, ironico, disincantato, che fugge
dalle responsabilità e che gioca con la vita senza mai venirne
soggiogato. L’unico suo reale interesse è il bowling, gioco in cui
eccelle ed in cui si cimenta con i suoi stravaganti amici: Walter Sobchack
(un irresistibile John Goodman), un pittoresco reduce dal Vietnam,
burbero ed attaccabrighe, sempre pronto a sventolare la sua (presunta)
odissea militare in faccia a qualcuno, e Donny (Steve Buscemi), emotivo,
timido, pieno di manie e puntualmente vilipeso dai suoi compagni. I Coen ci accompagnano in questa paradossale vicenda, sempre sopra le
righe ed all’insegna di un accattivante nonsense, in cui è impossibile
non essere stregati da personaggi come il “drugo” o Walter, che
appaiono sempre fuori luogo e fuori tempo rispetto agli eventi, ma che
riescono incredibilmente a cavarsela un po’ per fortuna ed un po’ per
quel loro candore di adorabili canaglie. Chiaramente ispirato nella
struttura al romanzo “Il grande sonno” (“The big sleep”) (1939)
di Chandler, questa pellicola è un autentico gioiello, che alterna
dialoghi brillanti, ritmo serrato, citazioni e riferimenti colti,
atmosfere sessantottine, un impagabile humour nero al limite del
cinismo, situazioni folli e surreali, momenti kafkiani e persino delle
eleganti sequenze oniriche che strizzano l'occhio ai musical di Berkeley
(come non citare il sogno del “drugo” che prima vola sul tappeto
nei cieli di Los Angeles e poi balla con Maude su una pista da
bowling). I Coen si divertono e si compiacciono nel sovvertire
l’immaginario cinematografico convenzionale, con trovate irriverenti che
lasciano il segno, e con la consueta caustica perfidia nel tratteggiare
situazioni all'insegna del paradossale nichilismo. Tantissime le scene
culto di questo capolavoro della leggerezza e del disincanto, che però
brilla anche di alto magistero registico. Pur essendo nato come prodotto tipicamente di nicchia, questa goliardica
apologia dell’assurdo ha avuto un grande successo di pubblico, è molto
amato dal popolo di internet ed ha un enorme schiera di fans.
Chiaramente imperdibile, per coloro che non lo avessero visto.
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